Conversazione con Marcacci

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Gobbi come i Pirenei esce nel 2011. Esordire a 48 anni non è da tutti, viene spontaneo chiedersi: questo è il primo libro che hai scritto o solo il primo che hai pubblicato?

Quello che ho scritto nei ringraziamenti finali del libro è tutto vero. Ho scritto tanto, ma senza una vera e propria finalizzazione. Tante storie abbozzate in vari periodi della mia vita, come schizzi su tele che poi sono state lasciate a marcire in soffitta. Poi un giorno leggo la storia di Randy Pausch e mi cambia la visione del mondo. Randy ha saputo darmi la forza e la carica per convincermi che avrei dovuto provare davvero a fare quello che ho sempre voluto fare, cioè raccontare le mie storie e provare a far star bene la gente che leggesse ciò che so fare meglio: creare suggestioni! Non ho mai avuto l’ambizione di diventare uno stimato scrittore con l’imprimatur di tutti coloro che credono che occorra seguire le regole che ti insegnano nei corsi di scrittura. Quello lo lascio fare a chi scrive libri che sono impossibili da finire e che ti rompi le palle di leggere a pagina venti. No, io ho sempre voluto arrivare al cuore della gente. Parlare al loro bambino interiore per dirgli che forse leggendo me non si imbatteranno in un nuovo Joyce o in un Foster Wallace, ma avranno trovato un amico con cui passare del tempo con il sorriso in bocca. E magari sentiranno la mia mancanza una volta finito il testo. Quella è la mia vera ambizione. Ho pubblicato tardi perché sono anche riuscito a resistere alle sirene dell’editoria a pagamento. L’EAP è il cancro del sistema e va combattuta con tutte le forze. Non pagherei mai per essere pubblicato. È una cosa umiliante e svilisce anche il lavoro di tutti quelli che scrivono davvero e lo fanno con impegno e amore. E bravura. Le case editrici a pagamento andrebbero boicottate in ogni modo, purtroppo hanno anche tutele legali che gli garantiscono un’impunità che non meritano.

Questa è una domanda che può sembrare banale, e che in parte si ricollega con quella sopra, ma che io considero particolarmente importante. Come sei arrivato alla scrittura? Come e quando hai iniziato a scrivere?

Io rido a crepapelle quando leggo interviste di “geni” precoci che si gloriano di aver cominciato a scrivere a sei anni e che già allora erano in grado di poter sedurre e attrarre gente con le minchiate che vergavano sul foglio. Anche io scrivevo da ragazzo, come tutti. Ma un conto è scrivere un diario un conto è trovare il modo di dipanare la matassa per poter riuscire a scrivere anche solo un racconto. E checché se ne dica è un processo di maturazione lenta che non ha paletti predefiniti che varia da persona a persona. Cominci a scrivere cose illeggibili e poi ti affini e poi scopri dentro di te il piacere di farlo e la voglia di migliorare. Poi perdi interesse e ti dedichi ad altre cose, ma se hai il demonio dentro per questa cosa, lui torna a cercarti e ti impone di rileggere ciò che avevi fatto in anni passati. E tu pensi “guarda te che boiata ho scritto”. E ti vergogni e sei felice di non averlo mai neanche proposto a un editore. Poi guardi meglio e trovi, in mezzo alla cacca che hai tirato giù, anche un paio di cosucce carine che ancora ti piacciono e pensi “però, potrei anche sviluppare questo” e piano piano, processo dopo processo, ti ritrovi che senza saperlo sei in grado di scrivere un pessimo romanzo. E là si riparte. Tempo, rilettura, riscrittura e di nuovo pause e poi ancora di nuovo. Fino a quando scrivi qualcosa che qualcuno trova interessante. In altre parole scrivere è fatica. E chi dice il contrario mente sapendo di mentire.

Parliamo del processo di scrittura di Gobbi come i Pirenei. Quanto tempo è passato dal primo barlume di idea al manoscritto stampato e imbustato per gli editori? E, ovviamente, come sei arrivato dall’“inizio” alla “fine” di questo libro?

Moltissimo tempo. L’idea di fondo l’avevo scritta qualche anno prima. Uno degli schizzi di cui ti parlavo. Mi piaceva la storia. Quella storia. Avevo scritto una cinquantina di cartelle e poi avevo detto che poteva bastare. La mia vita aveva sterzato e dovevo seguirla, lontano dal mondo della scrittura. Bollini però ogni tanto veniva a trovarmi in sogno e mi insultava e mi diceva che ero un maledetto perché non gli davo voce. Io pensavo che scherzasse. Fino a quando quel brutto ceffo ha cominciato a perseguitarmi davvero e a dirmi che me l’avrebbe fatta pagare. È stato allora che avendo letto di Randy Pausch e avendo visto la sua ultima lezione (che consiglio a tutti, poiché si può trovare oltre che su libro anche su You Tube pure con sottotitoli in italiano) mi sono deciso a organizzare il lavoro. Se dovevo seguire i miei sogni di bambino, come dice Randy, ho pensato che avrei voluto anche scrivere un romanzo senza regole classiche ma solo con ciò e nei modi che mi sarebbe piaciuto leggere a me. ‘Affanculo i corsi di scrittura e lo stile degli scrittori già famosi. Inutile copiare chi sa fare quelle cose meglio di me, io volevo solo dar voce al mio stile, semmai ne avessi avuto uno. Insomma io volevo un romanzo dove si ride ma ci si commuove, dove si imparano cose nuove o comunque si ha lo stimolo a provare a cercarle. Un romanzo che parlasse di filosofia ma che nella stessa pagina fosse presente Groucho Marx a braccetto con Kant. Un romanzo dove la storia d’amore doveva esserci ma al servizio di un processo che avrebbe dovuto far arrivare al lettore a vedere il mondo con occhi diversi. Sì ok, me ne rendo conto, tutti obiettivi ambiziosi e mal conciliabili. Ma io volevo assolutamente farlo così. Quello mi chiedeva Bollini. E la soddisfazione più grande è vedere che, alla faccia di Foster Wallace e dei suoi seguaci, il mio libro trova tanti lettori che la pensano come me. Questa è la cosa più gratificante di tutto.

Gobbi come i Pirenei non è precisamente un libro sul ciclismo, ma di ciclismo se ne respira comunque tanto. Qual è il tuo rapporto con le due ruote? Sei tu stesso un ciclista o ti sei dovuto documentare per scrivere il libro?

Amo il ciclismo. Il ciclismo è il secondo sport nazionale in Italia dopo il calcio. Non l’ho mai praticato a certi livelli ma a quello amatoriale sì. E come in tutti gli spaccati di mondo ci trovi persone fantastiche e benemerite teste di cazzo. Però davvero credo che nella sua accezione più pura abbia pochi rivali. E quando Bollini dice che insegna salire e scendere le montagne anche della vita è proprio vero. Insomma la vita, come metafora, non trova niente di meglio che il mondo a due ruote. Sofferenza e necessita di non mollare. Senso di squadra e spirito individualistico. Conoscevo già tanto del ciclismo ma lo stesso è stato necessario uno studio su alcuni parti che avrei dovuto conoscere meglio.

Eugenio Bollini ha un rapporto controverso con il suo quoziente intellettivo, in un certo senso lo vive come una gabbia e un’ossessione. Tu hai mai avuto la tentazione di farti misurare il Q.I.?

Io e Bollini siamo fratelli siamesi e quindi abbiamo anche lo stesso Q.I. e pure io soffro delle manie che perseguitano il protagonista del romanzo. Ed è come dici tu. È come vivere in una specie di gabbia maledetta che le persone che non hanno il nostro quoziente non percepiscono, riuscendo a vivere con molta più leggerezza di noi, che la vediamo senza sapere come uscirne. L’ossessione nasce dal fatto che per quelli che invece ne hanno di più di Q.I., la gabbia che noi 130 troviamo sempre chiusa,  ha la porta aperta e possono uscirne come e quando vogliono. Questo è il problemone per quelli che riescono a percepire i drammi del mondo ma non riescono a modificarli. A volte ti viene davvero la voglia di farti asportare un pezzo di cervello per riuscire a non vedere ciò che vedi. Fino ad oggi però non l’ho fatto perché la ASL non mi vuole rimborsare l’operazione. Dice che siamo in tempo di crisi e ci sono stati tagli anche su queste cose.

Bollini è un uomo divorziato, un padre part-time e un ciclista mai realizzato. Il romanzo è una corsa di riscatto dalla mediocrità alla realizzazione. In questo senso si può considerare un romanzo di formazione, definizione che di regola andrebbe applicata a quei romanzi che trattano del passaggio dall’adolescenza alla maturità. Bollini è un adolescente in ritardo? Oppure pensi che ci sia la necessità, arrivati all’età adulta, di una “seconda maturazione”?

Assolutamente la seconda che hai detto. Bollini è il classico uomo che sta per entrare nella sua età “di mezzo” e che deve compiere la seconda maturazione. La prima riesce all’incirca a tutti. Attorno ai 20 anni, chi prima chi dopo, tutti quanti si staccano dal loro habitat adolescenziale e cominciano a vivere. E tutti, chi più chi meno, hanno sempre grandi sogni. Attorno ai 35 arriva un momento in cui si comincia a fare i conti con quello che si è fatto e con quello che avremmo potuto fare. Quello che la teoria economica chiama costo-opportunità. Inevitabili i primi bilanci. E qua, proprio dove si trova Bollini in Gobbi, può avvenire la seconda e più importante maturazione. E, attenzione, non è mica detto che avvenga davvero. Insomma conosco tanti uomini che ancora oggi sono convinti a 50 anni di essere degli scienziati nei loro campi e che solo il caso, la sfiga o qualche amico stronzo non li ha fatti diventare quello che gli era dovuto per diritto divino. In altre parole accettare i propri limiti è la vera seconda maturazione. Accettarli senza farsi del male pensando di essere mediocri, e senza farlo agli altri pensando e dicendo che è colpa loro, è per chi ci riesce una rivoluzione copernicana. Riuscire a volersi bene anche se si comprende che c’è chi è più bravo di te, e riuscire a non invidiare in modo sbagliato chi che invece ce l’ha fatta a raggiungere i suoi sogni

La mediocrità deve necessariamente essere considerato un anti-valore? Si può distinguere una mediocrità positiva da una negativa?

La mediocrità non esiste. Questo è il vero messaggio del romanzo. L’obiettivo principale del romanzo è dimostrare che la mediocrità non esiste. Non che c’è n’è una positiva e una negativa. No, semplicemente non esiste. Esistono dei giudizi che portano a pensare che qualcuno, persino noi stessi, lo siamo davvero. Se riusciamo, come dice Bollini alla fine del romanzo, a scardinare questo lucchetto che è il “giudizio” la porta di cui parlavo prima si apre e possiamo finalmente essere liberi. La mediocrità o la grandezza non esistono se non ci sono degli standard di riferimento. È tutto là. Noi viviamo in un mondo dove ci vengono imposti standard di vita e di comportamento che spesso sono inaccettabili ma che, soprattutto i media, ci inculcano per plasmarci a loro piacimento. Riuscire a liberarci da questi schemi precostituiti è la vera lotta di Resistenza. Bollini ci insegna come farlo. Ben sapendo che ci saranno ricadute e che non sarà una passeggiata. Ma ce la si può fare. Per questo Gobbi è un romanzo di speranza. Se ce la fa Bollini può farcelo chiunque.

Possiamo dire che per Bollini gli antidoti alla mediocrità sono l’ironia e l’amore? Quali sono i tuoi personali antidoti?

Bollini pensa che essere ironico lo protegga dal mostrare a tutti la sua supposta mediocrità. Ma il gioco sta proprio qua. Bollini non è un mediocre. Bollini si sente un mediocre. Insomma è una persona con un Q.I. sopra la media, un professionista nel mondo dello sport, sa pensare, parlare, ha un discreto successo con le donne. Che c’è di mediocre in questo? Niente. Eppure lui si sente tale. È qua che ruota il romanzo. Tra come si è davvero e come ci sentiamo. Tra quello che vorremmo essere e quello che non siamo. Uno può vincere anche un Nobel e sentirsi mediocre. Pare una sottigliezza ma è una cosa fondamentale. Io ho smesso di prendere antidoti perché mi sono accettato per come sono. Non nutro invidia per chi pubblica in case editrici importanti ad esempio. È probabile che loro siano migliori di come sono io, o più funzionali alle logiche di mercato. Chi se ne frega. Sono concentrato su quello che voglio e cerco di capire se posso soddisfare i miei bisogni o no. Ma se non ne ho la capacità non mi faccio più male come succedeva un tempo.

C’è stato un momento della tua vita in cui hai dovuto fare il salto che fa Bollini, da gregario a velocista?

Mi è capitato il contrario. Mi è capitato di esser partito capitano e poi di esser diventato all’improvviso  un gregario. Ed è là che ho capito che, come qualcuno migliore di me ha già detto, è meglio essere capitano della mia barchetta che mozzo nella nave del capitano Achab.

Cosa fai nella vita oltra a essere uno “scrittore”? E come fai a conciliare la scrittura con l’esigenza di mettere in tavola il pranzo e la cena?

Ho una piccola società commerciale che gestisco con mio fratello e un caro amico. La scrittura non paga le bollette. Non a quelli come me. Scrivo quando posso. Come tutti quelli nelle mie condizioni. I precari della penna sfruttano i buchi, i momenti liberi, a volte la notte. Non nego che è un problema dover spiegare in certe situazioni alla gente che ti sta intorno e che vuole parlare di lavoro “vero” del perché io abbia a volte il volto trasognato o lo sguardo perso. Capita a volte che, proprio nei momenti sbagliati, mi venga l’illuminazione su qualcosa che ho pensato di scrivere qualche tempo prima e sulla quale mi ci ero arrovellato per ore. Ed è una vera sofferenza non poter rispondere “presente” ogni volta che il demonio ti chiama. Ma si sa, la vita non è giusta per nessuno

Quali sono i tuoi prossimi obbiettivi come scrittore? E sto parlando di scrittura… non di libri… quella è la prossima domanda!

Bella domanda. Ti confesso allora che il mio prossimo obiettivo è scrivere qualcosa in terza persona. Fino ad oggi ho scritto sempre con l’io narrante. Mi sento molto in confidenza con questa tecnica. È intrigante e permette di esplorare alcuni aspetti interiori ai personaggi che molto si confà al mio modo di scrivere. Sento però adesso la necessità di una nuova sfida che è quella appunto del romanzo in terza persona. Per come la vedo io, il primo modo, incorpora molta più azione di quanta ne è presente in questa seconda che invece abbisogna di più descrizioni che azione. Fino a oggi non l’ho mai sperimentata. Non in modo decente intendo. Ho qualche idea in testa e sto provando a vedere come funziona. Se funziona, soprattutto.

È il uscita il tuo nuovo romanzo. Puoi farci qualche anticipazione?

È un romanzo diverso da Gobbi. Sono diversi i momenti della mia vita in cui li ho scritti ed è diverso anche l’approccio al libro. In Gobbi il messaggio di speranza è molto forte e chiaro. Il tono è finto goliardico con punte di riflessione  che mi piace pensare siano di spessore. In questo nuovo romanzo Il ritmo del silenzio edito da Edizioni della Sera di Stefano Giovinazzo, ci sono soprattutto due temi centrali che regolano la narrazione. La nostalgia per una grande amicizia e il tempo. Due temi a me molto cari al momento. Ho cercato attraverso una storia, che spero possa essere interessante, di raccontare il senso della parola “amicizia”, che spesso è abusata per descrivere qualcosa che non è che semplice conoscenza. E poi di giocare con il concetto di tempo. Questo parametro maledetto della nostra vita terrena che ci inchioda alle sue regole. E allora ho pensato di tirargli io uno scherzo, facendolo andare al contrario, ogni tanto. Qualche volta facendolo accelerare e qualche volta facendolo andare al rallentatore. Ho scritto Il ritmo del silenzio con in mente un blues. Ed è scritto alla maniera in cui viene scritta una canzone blues. Un basso costante che detta il ritmo, che è la voce di un protagonista e una melodia dettata dalla voce di un altro protagonista, che alla fine, nelle intenzioni dell’autore, si fondono per il medley finale. Il libro ha avuto, per molti aspetti, una gestazione dolorosa che ha avuto però come risultato finale quello di averlo fatto diventare solo che molto più caro al mio cuore. Mi piacerebbe tanto che tutti quelli che hanno amato Bollini, amino anche Marco, Totò e Henry che sono i protagonisti di questo nuovo romanzo.

Due (anzi tre) curiosità: Qual è il libro che ti ha fatto innamorare della lettura/letteratura? Quando hai iniziato a leggere?

Lo so, adesso se fossi uno di quegli scrittori “ganzi” dovrei tirar fuori Dostojetsky o qualcosa di simile. Mi chiedi chi mi ha fatto innamorare della letteratura e io invece di tirar fuori un grosso nome ti dico che banalmente quando ero bambino Edgar Rice Burroughs ha davvero cambiato la mia vita. Sono stato influenzato da molti scrittori ma quando ho letto Burroughs e il suo Tarzan  mi si è aperto un mondo di fronte. Quindi è colpa sua se sto qua adesso ha rompere le scatole  perché  quando ero bambino per me Edgar Rice Burroughs è stato davvero magico. Ho iniziato a leggere molto giovane, ma ho sempre amato svariare. Adoravo e ancora oggi non li disdegno persino i fumetti. Mi piace leggere le poesie ma contemporaneamente  non nego occhiate anche a giornali di basso spessore culturale. Tutta questa confusione credo si noti nella mia scrittura.

Puoi confidarci qualche tic o abitudine da scrittore?

Anche se temo che non si percepisca dalla lettura, sono un maledetto perfezionista. Io correggo le mie frasi in continuazione. Non riesco a fermarmi. Sono capace di cambiare parole o verbi o strutture anche venti o trenta volte prima che mi soddisfi la versione definitiva. E poi dopo qualche giorno che la rileggo, penso “No cazzo, così non funziona” e si ricomincia. In effetti mi piace molto più rileggermi e correggermi che scrivere su un pezzo di carta bianca. Alla fine è diventato un vero e proprio tic. Chi mi conosce sa che ad un certo punto devi obbligarmi a dire basta altrimenti io andrei avanti all’infinito.


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“Le leggende del nonno…”

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Le leggende del nonno di tutte le cose è un libro di favole che nasce esso stesso da una favola, o almeno da una storia che ci piacerebbe fosse una favola. Mauricio Rosencof è stato detenuto per tredici anni in isolamento, nella sua cella non poteva tenere nessun oggetto personale e ben che meno avere carta e penna per scrivere, ma che una volta al mese riceveva la visita di sua figlia Alejandra, una bambina nata essa stessa in caserma, perché sua mamma era incinta quando è stata arrestata. E per sua figlia, per farle dimenticare lo squallore del parlatorio del carcere, inventava storie. Queste storie sono poi state scritte e raccolte in questo libro, non solo per sua figlia che ormai era diventata grande, ma anche per la sua nipotina e per tutti i bambini che nelle proprie labbra nascondono queste parole: “Raccontami una storia”. Sono storie piene di bellezza e di libertà, cosa eccezionale considerando le condizioni nelle quali sono state concepite.

Quattordici favole per raccontare la creazione del nostro mondo, o meglio della creazione della bellezza nel nostro mondo. Nella mente di Rosencof e nelle parole del “Nonno della Sera” il sole è un alveare di lucciole e i primi fuochi bruciavano senza fumo, che arrivò come regalo degli abitanti di Urano. I soffioni non sono altro che piccoli soli, bianchi e leggeri inviati da Venere per far compagnia alle bambine che giocavano da sole; e in una Terra in cui le arance erano verdi (dolci ma verdi) i Pesci Arancioni di Marte intrapresero una traversata per portare il loro colore a completare l’arcobaleno e a colorare il fuoco dell’Uomo Primitivo.

Sono favole dai toni delicati queste, piene di colori, di dolcezza e di magia. Ci troviamo davanti a racconti solo in apparenza leggeri ma che, attraverso il linguaggio semplice delle fiabe, ci testimoniano come sia possibile, anche nella privazione della dittatura, conservare la propria integrità interiore grazie alla conservazione della memoria, alla pratica dell’immaginazione e al gusto di narrare.
Ad arricchire il libro ci sono l’introduzione di Diego Sìmini, docente di Letteratura spagnola presso l’Università del Salento e la postfazione sulla vita di Mauricio Rosencof di Serena Ferraiolo, docente di Lingua e letterature ispanoamericane all’Università di Salerno. A chiudere troviamo le belle illustrazioni dai toni pastello di Elisabetta Rossini che contribuiscono a dare colore a ognuna delle storie.

“Questa è la Leggenda di una Barchetta di Carta. Non di una qualsiasi, ma della prima. Di quella che arrivò sulle coste della Terra nei Tempi dell’Antichità, da dove solitamente provengono le Cose di Prima. Molti credono che la prima barca sia stata fatta con un foglio di quaderno. Altri studiosi di storia navale sostengono che fu costruita con un foglio di diario. Ma nell’Antichità non esistevano librerie, né diari, né quaderni. C’era solo un Mare calmo e verde, prima che il Vento arrivasse, e fiumiciattoli di sabbia dove i piedi nudi dei bambini ridevano, allargando le dita per il solletico provocato dalla sabbia dorata che camminava dolcemente sul dorso dei piedi.”

“Questa fiamma rossa che brilla da un albero all’altro e viene qui per posarsi in questa mano (dove berrà sorsi d’acqua che conservo per lei nella conca del mio palmo), è un uccellino che nacque dal Fuoco. Si chiama Churrinche. Il Nonno della Sera fece una pausa nel suo racconto al vento, mentre la fiamma, senza bruciarlo, piegava le sue ali e si posava sul pollice.”

Mauricio Rosencof è uno scrittore, giornalista, drammaturgo e politico uruguayano. È stato dirigente del Movimento di Liberazione Nazionale uruguayano – Tupamaros. Venne arrestato nel 1972 e dichiarato “ostaggio” della dittatura insieme ad altri otto detenuti. Nel 1985, dopo tredici anni di isolamento e torture fisiche e psicologiche, fu liberato. Attualmente vive a Montevideo. In Italia sono stati pubblicati Le lettere mai arrivate, Le Lettere, Firenze 2008 e Memorie dal calabozo, Iacobelli, Roma 2009.

Autore: Mauricio Rosencof

Titolo: Le leggende del nonno di tutte le cose

Editore: Nova Delphi Libri

Anno di pubblicazione: 2011

Prezzo: 14 euro

Pagine: 120

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Intervista Carlo Ziviello

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Perché avete deciso di diventare editori?

Ad est dell’equatore è stata fondata dai fratelli Ciro e Marco Marino nel 2008, allora poco più che ventenni. Il senso del loro sogno – e del nostro, Carlo Ziviello e Guglielmo Gelormini, che siamo entrati in società un anno dopo – si riassume in questo: “I libri sono la nostra scommessa: farli, oggi, è difficile, ma  noi  crediamo  ancora che possano inventare  il migliore  dei mondi possibili.” Da allora non è cambiato molto; fare libri è ancora una scommessa, a crederci con noi, però,  oggi si sono aggiunti altri!

Come pensate di distinguervi nel panorama editoriale italiano?

Con qualità e originalità, soprattutto.  Scegliamo strade diverse non solo come contenuti, ma anche come strategie di marketing: le bESTie, un diverso modo di permettere agli esordienti di accedere al mercato editoriale basato sulle produzioni dal basso – il crowdfunding, per intenderci – è tra questi.

Come giudicate lo “stato di salute” dell’editoria campana?

Ci sono editori storici che non sono sempre riusciti ad uscire dalla dimensione dell’editore-persona per diventare azienda, e si identificano troppo con la figura del fondatore, nel bene e nel male. Ci sono case editrici giovani e molto attive, tra cui speriamo di rientrare, che però soffrono per problemi dimensionali e finanziari. La vera criticità dell’editoria campana, e in generale del mezzogiorno, è la distanza dai centri culturali del paese: Roma e soprattutto Milano. L’editoria campana vive spesso del proprio mondo culturale – sia in termini di autori che di contatti con la stampa e i media. Una sorta di autoreferenzialità geografica che, se in termini di fecondità culturale aiuta molto – Napoli è e resta una città culturalmente molto viva –  non aiuta invece per ciò che concerne la visibilità. Quello che proviene da Napoli, se non parla di camorra o ecomafia, resta poco visibile e raramente raggiunge quel mercato che non a caso viene definito nazionale.

Come scegliete i libri (e gli autori) per il vostro catalogo?

Abbiamo un’identità editoriale precisa e decisa: colori forti, testi rapidi e taglienti, contenuti originali, storie brevi ed incisive per ciò che riguarda la narrativa, senza dimenticare le collane che trattano di indagine sociale. Prendiamo in considerazione i manoscritti che rispettano queste caratteristiche, senza dimenticare che all’autore è richiesto di impegnarsi attivamente – e soffrire, se necessario – al nostro fianco nella promozione del libro.

Quale dei vostri libri consigliereste a chi non vi conosce?

Direi tutti; abbiamo creduto in ogni singolo libro che abbiamo pubblicato; oggi, tra le novità, direi sicuramente Pane e Peperoni, autobiografia di Peppe Lanzetta in uscita ad aprile. 3 volte 10, una trilogia di racconti surreali su Maradona – che con l’icona del calciatore non hanno niente a che vedere – scritta da Davide Morganti. Tra i romanzi, Quis ut deus, di Paolo Logli, pubblicato l’anno scorso e già alla seconda ristampa. Direi anche Inferno di Gianfranco Marziano, autore cult non solo in Campania, che purtroppo però è esaurito.

Come avete definito le vostre collane?

Riporto dal nostro sito:

Virus: Romanzi e racconti lunghi per raccontare il nostro tempo attraverso la lente deformata di ciò che siamo. Romanzi pop, acidi, dai colori irreali o surreali, con in ogni caso un passo diverso rispetto alla realtà, troppo avanti o decisamente troppo indietro. Romanzi che entrano dentro, come virus appunto, e lentamente modificano il dna della vostra struttura mentale

Extras: Libri che non scorrono su un piano stabile. Che non hanno una geografia e un identità immediata. Che si collocano dovunque. Cataloghi, narrazioni multimediali, spin off. Tutto ciò che è extra collana e anche oltre.

Liquid: La letteratura alta, o altra. Poesia soprattutto. La letteratura che si mette di proposito le classifiche di vendita e il mercato alle spalle, per avere davanti una sola cosa: l emozione. Letteratura liquida, che non ha una forma immediata, letteratura del nostro tempo che si muove incessantemente, e che solo le parole possono provare a fissare.

Ni Mu: Romanzi che affondano nella realtà. In qualche modo l opposto dei Virus. Romanzi che recuperano la grande tradizione della letteratura d impegno civile, narrazioni che impattano sulle coscienze e che non smettono mai di ricordarci che la vera letteratura non e fatta per intrattenere ma per scuotere.

Cubi: Immagini che bucano la carta su cui sono stampate raccontando realtà invisibili, ora vicine, ora lontane. Che si tratti spazi deserti, periferie dimenticate o centri ipermondani, i Cubi descrivono tutto quanto l’occhio da solo non riesce a raccogliere. Viaggi fotografici che attraversano il quotidiano con curiosità e precisione, pescando nell’insolito, sciogliendo il difficile, fissando memorie.

Barbari: Saggi dal passo lungo e meditato, e instant-book  per cogliere i fermenti più immediati del nostro tempo. In ogni caso, strumenti di conoscenza perché la narrazione della realtà deve necessariamente passare per un’analisi accurata di essa. L’intento è quello di cogliere gli impulsi di ricerca nella loro forma più diretta, per informare e, se necessario, per contro informare.

E la veste grafica delle vostre collane?

Usiamo colori primari, non di rado pantoni fluo, e disegni o immagini forti. Credo sia uno degli aspetti di maggior riconoscibilità che abbiamo.

Com’è il vostro rapporto con la distribuzione e le librerie?

Abbiamo un’ottima distribuzione nazionale, PDE; con le librerie, ci aiutiamo cercando di consolidare rapporti diretti.

Fino adesso come giudicate la risposta dei lettori al vostro progetto?

Alterna: ottima dal punto di vista della visibilità o dell’attenzione. Le vendite, però, stentano a decollare; ma questo è un punto che condividiamo con molti altri piccoli editori e fortemente dipendente dalla congiuntura economica.

Cosa pensate del fenomeno dell’editoria digitale? Quali rischi e potenzialità intravedete?

Né  rischi né potenzialità. L’editoria digitale è uno strumento del tutto diverso, a nostro parere. Un nuovo modo di fruire la letteratura, che richiede a nostro parere testi diversi, studiati per strumenti diversi, e che va affrontata in modo del tutto diverso rispetto all’editoria cartacea.

Quali sono i vostri prossimi progetti?

Ad Aprile uscirà Mariano Baino, uno dei più importanti poeti italiani viventi, con un romanzo che definirei spiazzante. A maggio pubblicheremo due racconti neri di Giancarlo De Cataldo, in linea con lo stile dell’autore di Romanzo Criminale mentre a giugno uscirà un saggio-reportage scritto in diretta sulla rivoluzione in Libia di Lucia Goracci, inviata del TG3 in medio oriente. In prospettiva, vogliamo aprirci alla letteratura straniera, soprattutto nordamericana e sudamericana: a settembre uscirà per i nostri tipi l’opera forse più importante di Alejandro Morales, tra i maggiori esponenti della letteratura chicana mondiale, del quale tradurremo per la prima volta in italiano Caras viejas y vinho nuevo.

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Intervista a Marcello Baraghini

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Come è nata l’esigenza di fondare la casa editrice?

La casa editrice viene registrata al Tribunale di Roma ufficialmente nel 1970, anche se le prime fanzine cominciano a circolare ufficiosamente già nel 1968; dunque la casa editrice nasce in pieno clima Sessantottino, sull’onda della protesta giovanile che negli Stati Uniti era già attiva da qualche anno e proprio sul modello delle “Alternative Press” statunitensi nasce Stampa Alternativa, per dar voce a tutti quegli argomenti “scottanti” di contro-informazione.

Come si caratterizza il vostro progetto editoriale?

L’intento era quello di fare contro-informazione sugli argomenti più disparati: dall’aborto all’obiezione di coscienza, dai diritti dei minori fino alla legalizzazione delle droghe leggere.

Il direttore editoriale Marcello Baraghini ha collezionato 137 procedimenti penali, tutti per reati di opinione. Ora, molte di quelle battaglie sono diventate leggi ma la casa editrice continua a fare contro-informazione sia attraverso saggi d’inchiesta, romanzi sociali che riscoprendo classici della letteratura dimenticati o scomodi. Non a caso la nostra collana di punta si chiama “Eretica” e vuole scuotere gli animi a un pensiero libero e privo di pregiudizi.

C’è un libro e/o un autore al quale sei più affezionato? Perché?

L’isola della tartaruga di Gary Snyder, primo perché è un libro di splendide poesie e alcuni saggi a sfondo ecologico, secondo perché Snyder è stato un proto-ecologista della beat generation e terzo, ma non ultimo, perché lo abbiamo ospitato per un nostro indimenticabile Festival della Letteratura Resistente, qui in Italia, prima a Roma e poi a Pitigliano ed è una persona davvero speciale, come solo i poeti sanno essere e ogni volta che parlava in pubblico o in privato, fosse per una conferenza stampa o per un reading delle sue poesie, tutti rimanevano in un mistico silenzio.

Come vi rapportate con gli autori esordienti? Come giudichi la qualità del materiale che vi inviano?

Spesso gli esordienti sono autori ostici poiché non hanno molta umiltà e tendono a pensare di essere tutti Joyce in erba. Comunque, sia  per la saggistica che per la narrativa, vale sempre il criterio che deve esserci uno sfondo sociale o di denuncia. Se il contenuto è convincente si può anche lavorare su una forma che lascia a desiderare, consegnando il materiale nelle mani di un buon editor.

Cosa ne pensi del fenomeno dell’editoria a pagamento e qual è la vostra politica in merito?

Stampa Alternativa è stata la prima casa editrice in Italia che sollevò la questione circa dieci anni fa con un libro di Miriam Bendia che si intitolava Editori a perdere, si sollevò un gran dibattito attorno al libro. Molti critici si affrettarono a suddividere i cattivi e i buoni editori a pagamento, a seconda dei casi. Certo, c’è differenza tra l’editore a pagamento che ti truffa completamente con false promesse di distribuzione e promozione e quello che chiaramente si presta a stampare un lavoro per un dottorato di  ricerca e non ti prende in giro. Ma in generale non ci sembra un lavoro da editori ma piuttosto da tipografi.

Quali sono quali sono le difficoltà, le soddisfazioni e le aspettative del vostro lavoro editoriale?

Le difficoltà sono di visibilità nelle grosse catene librarie, in particolare nelle Feltrinelli che da quando hanno acquisito la distribuzione Pde, stanno applicando una logica sempre più di marketing e sempre meno di qualità del prodotto. Questo meccanismo innesca per gli editori indipendenti non di rado anche problematiche di natura economica.

Le soddisfazioni sono quando si prende in mano un libro bello, sul quale si è lavorato molto, ci si è creduto e ci si sente un po’ come un genitore che ha partorito la sua creatura.

Aspettative: di continuare a fare un lavoro creativo con amore e professionalità.

In questo mercato dominato da pochi e grandi gruppi editoriali come pensi sia possibile combattere l’omologazione nella lettura?

Col passaparola, con internet e con quei pochi critici che ancora leggono i libri e sanno difendere i propri spazi sulle testate giornalistiche per le quali scrivono.

Cosa ne pensi della legge Levi?

Se viene rispettato davvero il tetto di sconto del 15%, per gli editori indipendenti è un vantaggio in più rispetto allo sconto selvaggio che i grossi gruppi editoriali finora hanno invece potuto praticare a loro totale piacimento. Un po’ meno comprensibile la parte di legge che vorrebbe equiparare tutte le testate anche web, soffocandole di oneri di ogni sorta, come se il settore non fosse già in affanno così.

Due domande più personali:

Qual è il tuo libro preferito?

Ho amato molti libri, ma il mio faro è La vita agra di Luciano Bianciardi.

Come si svolge la tua giornata di editore?

Leggo molto; libri, bozze e giornali. Comunico con i miei più stretti collaboratori e per rilassarmi faccio lavori di campagna.

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La dichiarazione di De Gouges. Tutti i diritti delle donne

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Raramente si può dire con certezza di avere tra le mani una vera riscoperta editoriale, un libro fondamentale salvato dal naufragio della memoria. Questo è uno di questi casi. Continue reading

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Zink: un perfetto gioco di scatole

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Zink (Zandonai) è un libricino piccolo piccolo, sono appena 100 pagine, ma è uno di quei libri dove ogni singola parola ha un peso e una sostanza. È un libro breve eppure è così ricco che contiene tre storie, tre vicende che contenute l’una dentro l’altra in un perfetto gioco di scatole. Continue reading

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“Ammazzarsi per sopravvivere”

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Di libri sul precariato ormai ne sono stati scritti a centinaia, libri-inchiesta, libri ironici, libri-denuncia, tanto da poter dire che è nato un vero e proprio genere narrativo. Dunque non facile trovare dei motivi per i quali un lettore (magari un lettore-precario) dovrebbe mettere le mani al portafoglio (in tempo di crisi poi…) per comprare un altro libro sul precariato. Per fortuna di buoni motivi per comprare questo libro ce ne sono, innanzitutto perché non è un libro sul riscatto e sul ritrovato successo ma sulla sopravvivenza. Ed è alla sopravvivenza che guardano la maggior parte dei precari di oggi. Quella raccontata da Levison non è una sopravvivenza amara e rassegnata ma una vera e propria forma di vita che diventa sempre più simile a quella di un lavoratore errante, un lavoratore votato all’improvvisazione quasi come un attore da palcoscenico. «Sono diventato senza accorgermene, un lavoratore itinerante, un protagonista di Furore dei tempi moderni».

Iain Levison si sveglia, fa colazione e come succede sempre più spesso spulcia tra gli annunci di lavoro. Ormai è un esperto, non di una professione ben inteso, visto che ha collezionato ben 42 impieghi in 10 anni e in 6 Stati, ma della sottile arte di decifrare tra il burocratese degli annunci di lavoro per trovare il perfetto compromesso tra il minimo impegno e il massimo guadagno.

«È domenica mattina e sto spulciando gli annunci di lavoro. Ce ne sono di due tipi: lavori per cui non sono qualificato e lavori che non mi va di fare. Prendo in considerazione entrambi.»

E così Iain si trasforma di volta in volta in tagliatore di pesce di un market per ricchi, in barman per feste private, in conducente di autocisterne, in pirata della televisione via cavo fino a imbarcarsi su una nave per la pesca di granchi giganti nel mare dell’Alaska

Il viaggio di Iain di lavoro in lavoro diventa l’occasione per metterci con lui sulla strada, come nei migliori romanzi on the road, in un’avventura che va da New York fino all’Alaska e ritorno. Un pellegrinaggio lavorativo per conoscere un’America sempre più disorientata e frammentata dietro la sottile facciata del sogno americano.

Non c’è amarezza in questo viaggio ma solo tanto humor e un pizzico di cinismo, tutto quello che serve in fondo per (soprav)vivere come lavoratore errante nell’era della globalizzazione.

La laurea in Lettere forse non gli sarà servita a trovare lavoro ma possiamo dire che sicuramente Levison ha delle bellissime doti letterarie, tanto da trasformare un libro potenzialmente solo amaro e disincantato in un romanzo ironico, incisivo e graffiante, un viaggio sulle strade d’America che ci riporta all’irriverenza di Kerouac e Bukowski.

Iain Levison, nato in Scozia nel 1963, cresciuto negli Stati Uniti, vive nella Carolina del Nord. In Italia sono stati pubblicati Fatti fuori (Instar Libri, 2005), Una canaglia e mezzo (Feltrinelli, 2008). Tradotto in vari paesi, Levison ha suscitato l’interesse della stampa e del pubblico. È considerato un autore di culto. Stando alle ultime notizie, fa il falegname.

Autore: Iain Levison

Titolo: Ammazzarsi per sopravvivere

Editore: Edizioni Socrates

Anno: 2009

Prezzo: 10 euro

Pagine: 160

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