Scrivere dello scrivere è (stata) una pratica diffusissima – soprattutto nel ‘900. Al punto che il serpeggiante sospetto di una via di fuga anche furbastra e stucchevole di scrittori a corto di idee è parso fondato. Si può andare avanti per decine di pagine per dire che non si ha niente da dire – chi ne ha fatto paradossalmente una fenomenologia della scrittura, o un’antropologia dello scrittore, chi ci ha ingloriosamente marciato.
Carlos Liscano – o almeno colui che non teme di utilizzare ne “Lo scrittore e l’altro” il nome dell’autore uruguaiano, nato nel 1949, la sua voce narrante – è di quegli scrittori che faticano a leggere romanzi, che non hanno alcun interesse per “la storia che racconta un romanzo”, che non vedono la storia “ma il modo in cui la storia si presenta”. Tipico modo di concepire la scrittura meno come intrattenimento, ludus, menzogna e più come esercizio filosofico del tutto peculiare, inteso com’è non quale elaborazione concettuale sulle cose generali o sui sistemi, ma dissezione di un gesto – lo scrivere stesso – o di un individuo irripetibili. Seppure non del tutto originale; perché, si è detto, uno scrittore che adombra il tentativo di tenersi a distanza da se stesso, da un sé poco avventuroso, biograficamente ininteressante per i più, non è una novità.
“Non c’è niente da scrivere sulla mia vita. Solitudine, reclusione obbligata, reclusione volontaria. Sporadiche ansie d’infinito”. Ma questo niente di cui dice di non poter dire alcunché, è in effetti il solo oggetto vero del quale è in grado dire qualcosa.
Non è da sottovalutare nemmeno la confessata “incapacità di descrivere dettagli e la tendenza a cadere nel trascendente”. Il trascendente non è un bel posto per cercare “ispirazione”. La scrittura – almeno quella narrativa – ha da fare con la materia: lo sapeva bene una che al trascendente credeva eccome, Flannery ‘O Connor. Dalle parti di Liscano, se la scrittura non serve a parlare di sé, non serve a nulla. Il problema è: come continuare se parlare di sé significa parlare di un vuoto, in questo caso di quella bolla dalla pellicola spessa che si è costruita al posto dell’’io’ in tredici anni di carcere?
Liscano aveva combattuto il regime del suo paese ed era finito in galera. Ma, ce lo insegnano Kafka o Beckett, uno scrittore non ha bisogno del carcere. È in grado di fabbricarselo da solo. Almeno, un certo tipo di scrittore, per il quale scrivere sembrerebbe il solo modo per tollerare il peso di un silenzio profondo – volendo nemmeno così inviso, questo il punto. La scrittura è un modo per rispettarne la terribile verità addomesticandolo, tenendone a bada la follia e insieme sobillandola. Ancora, più che un esercizio di ragionamento, questa sorta di diario assomiglia a un gesto apotropaico – ma assai controverso: guarisce dal nulla e nello stesso tempo nel nulla si tortura. Vi è una mossa originaria, un errore fondativo: quello di concepirsi scrittori. Di inventare un sé scrittore, al quale ciò che di primitivo rimane (il residuo biologico, affettivo, sociale: cosa?), faticosamente cerca di adeguarsi.
Un’auto-tortura, in pratica. Della quale poi si finisce per non saper fare a meno. In tale circolo vizioso, scrivere tiene a bada il dolore e se ne procura di ulteriore. Forse, se non si ha niente da dire, l’unico modo per guarire davvero è lasciare sulla scrivania penne, blocknotes o computer e uscire di casa. E provare a vivere.
Autore: Carlos Liscano
Titolo: “Lo scrittore e l’altro”,
Casa editrice: Lavieri
Anno: 2011
Pagine: 168
Costo: Euro 15,00