“Savana Padana” subisce moltissimo l’influenza di Sergio Leone (lei stesso parafrasa parlando di “polenta Western”), e come in Sergio Leone i personaggi diventano degli archetipi, degli elementi mitologici. Nella realtà della scrittura si è ispirato a qualcuno? Esistono delle persone che (almeno in parte) hanno contribuito a formare i suoi personaggi?
“Savana Padana è un romanzo non solo influenzato, ma direi anche fortemente sporcato, perturbato e addirittura violentato da diverse contaminazioni e suggestioni, sia letterarie sia cinematografiche. Penso al noir e anche alla crime fiction passando per il pulp, il grottesco, il kitsch. Certo, la cifra più genuinamente western è, con tutta probabilità, quella volutamente più incisiva nell’impronta della storia, nel senso che come dici tu questo aspetto sottolinea gli aspetti più mitologici e se vogliamo epici della vicenda, con questi personaggi che effettivamente assurgono ad archetipi. A tale proposito mi sono ispirato in verità a diverse suggestioni, riferite sostanzialmente a due filoni: uno legato alla realtà vera e propria ed un altro legato alla letteratura e al cinema. Per quanto riguarda il primo devo dare merito anzitutto ad una mia affinità elettiva per una certa dimensione rurale, triviale della mia terra e ai molti personaggi crudi e volgari che popolano le campagne venete, basti pensare ad esempio agli avventori dei nostri bar, alle sagre paesane, ma anche ai protagonisti dei fatti di cronaca nera locale unitamente alle difficoltà legate all’integrazione di molti stranieri. Per quanto riguarda il secondo filone invece, cioè quello più strettamente culturale, potrei citare riferimenti a Lansdale, Leonard, Crews, Lee Burke in letteratura; Leone, Tarantino, il Kusturica di “Gatto nero gatto bianco” e lo Scorsese di “Good Fellas” nel cinema. Tutto frullato insieme in un frappé di grappa, pistole, polenta, sangue e dialetto. E il risultato è quello che conosci. Cioè una brodaglia politicamente scorrettissima e sanguigna che nessun narratore veneto ha mai avuto voglia di raccontare perché troppo preso da solipsismi, contemplazioni dell’ombelico e seghe mentali che ormai appartengono ad una cultura novecentesca per me del tutto superata e assolutamente anacronistica.”
Lei viene dalla letteratura per l’infanzia, e quindi conosce la morfologia della fiaba. Lo stesso processo di formazione si applica al thriller-noir, solo che qui non si salva nessuno, né moralmente né materialmente. Possiamo immaginare che lo zingaro gay fuggito con la coca farà presto la stessa fine degli altri, in un racconto che non è ancora stato scritto? Non ha sentito la mancanza (in senso narrativo) di un personaggio che permettesse al lettore di identificarsi? E’ una scelta pericolosa, che però ha pagato.
“Verissimo, la morfologia della fiaba di Propp a volte è adatta anche alla struttura del thriller-noir, e per la verità anche nelle fiabe antecedenti il XVII secolo l’elemento nero era fortissimo, tanto che spesso non si salvava nessuno nemmeno lì: i loro protagonisti finivano molto male poiché le fiabe venivano considerate come i migliori veicoli di ammonimento comportamentale e avevano principalmente il compito di dissuadere i bambini dal tenere atteggiamenti scorretti come quelli dei protagonisti, pena la loro stessa tragica e sanguinosa fine.
Venendo allo zingaro gay di Savana Padana, beh, francamente non ho pensato ad un sequel, anche se a dir la verità, per lui la vedrei molto brutta, nel senso che secondo me finirebbe presto per mettersi in guai più grossi di lui. No, non ho mai sentito la mancanza di un personaggio nel quale il lettore si potesse identificare, e sai perché? Perché la mia idea fin dall’inizio è sempre stata quella di rappresentare un “circo di sangue” al quale si possa assistere dall’esterno o dal di sopra, una sorta di scontro tra moderni gladiatori o di corrida pulp, dove i personaggi rappresentano gli aspetti più barbari, crudi e triviali di ognuno di noi, ma stanno “sotto” a noi, galleggiano in una sorta di sconfitta ineluttabile e in divenire. Adoro essere sarcastico, cinico, spietato con i miei personaggi. Né vincitori, né eroi. Tutti vinti. In fondo tutti vittime della “morale dell’ostrica” di Verghiana memoria. C’è chi ha detto che i miei personaggi sono stereotipi, senza spessore psicologico. Dal mio punto di vista questo non è affatto una “deminutio”, nel senso che i miei personaggi volutamente non sono riflessivi, semplicemente perché non sanno nemmeno cosa sia la riflessione o lo psicologismo. In questo senso sono più simili alle bestie che agli esseri umani: vivono di istinti primordiali, di sensi. E di gente così ce n’è più di quanta pensiamo… E poi mi piace il fatto di raccontare storie senza coinvolgimenti morali o psicologici da parte anche del narratore. Raccontare per raccontare. E per divertire. Punto. Poi ognuno si faccia le idee che vuole.”
Io stesso ho parlato di Carlotto, vista la zona di provenienza, ma da un punto di vista narrativo, non mi sembra che abbia molto a che fare con lei. Quali sono (oltre al già citato Sergio Leone) i suoi riferimenti? La sua storia di lettore è affine a quella di scrittore? Lei a chi si sente più vicino?
“Stimo tantissimo Massimo Carlotto e trovo che sia davvero un ottimo scrittore. Ciò detto, io e lui viviamo letterariamente su due pianeti diversi. Carlotto e noiristi a parte, la stragrande maggioranza degli scrittori italiani è per così dire più impegnata a far riflettere che a raccontare. Più che narratori sembrano suore tout court e sacerdoti politici. Nella maggior parte della produzione letteraria nazionale infatti è quasi sempre sottesa una qualsivoglia denuncia sociale, una questione morale che faccia riflettere sul mondo che ci circonda. Io rifiuto questa base di partenza, nel senso che per mia parte voglio provare a fare qualcosa di diverso, qualcosa che non rientri nella solita snobistica concezione tipicamente italiana per cui “scrittori” sono soltanto i lirici e gli intimisti. Io desidero primariamente raccontare storie storie toste, poi se queste fanno anche riflettere qualcuno o in qualche misura riescono a sollevare dei temi di riflessione, bene, sennò va bene lo stesso. Alla lirica preferisco l’epica. Eppoi è importante anche che la mia storia diverta. Altra cosa infatti che francamente non sopporto davvero più è quello snobismo per cui molti autori intendono sempre rivolgersi ad un pubblico cosiddetto “alto”, salvo poi lamentarsi che non si vendono più libri. Ma io mi chiedo: se la cultura è per pochi, possiamo legittimamente parlare di cultura? Per carità, i miei riferimenti sono altri, e sono da ricercarsi soprattutto oltreoceano: penso a Lansdale, appunto, a McCarthy e a tutti quegli autori tanto amati e citati dal movimento Sugarpulp.”
Ci racconta anche se sta scrivendo qualcosa, che cosa, di che parla etc.?
“Ho già pronto un altro racconto lungo, sostanzialmente si tratta di un horror-noir: una storia di formazione criminale raccontata in prima persona dal protagonista, il quale all’epoca dei fatti era un adolescente perdigiorno. L’anno della storia è il 1982, l’anno dei mondiali di Spagna e di tanta musica pop di successo. I luoghi sono quelli solari delle spiagge di Sottomarina e quelli oscuri e spettrali della laguna nera retrostante il porto di Chioggia, ai confini tra le province di Padova e Venezia. E proprio in questi giorni ho iniziato a lavorare ad un terzo romanzo del mio filone “polenta-western”. E credo che ci sarà da divertirsi parecchio…”
Matteo Righetto vive a Padova, dove insegna lettere. Si occupa di letteratura pulp/noir e di letteratura per l’infanzia per la quale è autore di varie pubblicazioni. Tra queste, La Storia dell’Orso, La Cornacchia Bianca e La Rondine e la Nuvoletta (tutte edite da Panda nel 2007). Il suo testo Francigena Strata ha vinto nel 2007 la rassegna teatrale “Piccoli Palcoscenici”.
Info: leggi la recensione di “Savana Padana”
Foto: http://www.sugarlpulp.it