Ne “Il tempo di Woodstock” (Laterza, 2009) Ernesto Assante e Gino Castaldo rievocano i tre giorni del più celebre raduno rock di sempre. Nato come festival musicale nel 1969, a Bethel nella contea di Sullivan a New York.Nell’anno dello sbarco sulla luna, questo grande raduno di cinquecentomila giovani si tramutò in un grande movimento pacifico di musica, d’amore ma anche di protesta per denunciare il malessere di un’intera generazione. Ne abbiamo parlato con uno dei due autori, Gino Castaldo.
Cosa ha rappresentato Woodstock per i giovani che allora avevano vent’anni? Fu solo la realizzazione del sogno hippy o qualcosa di più?
“Fu sicuramente quello ma anche qualcosa di più. C’era una generazione con un forte impulso rivoluzionario, quello fu un modo per dimostrare che invece di immaginare un mondo migliore in proiezione futura, si provò di fatto a praticare un modo diverso di vivere. Quindi quei tre giorni sono stati una specie di isola temporanea in cui certe regole erano abolite, tutto si faceva sulla solidarietà, sullo scambio, senza denaro, senza polizia, senza nessun tipo di repressione. Tutto ha funzionato miracolosamente bene considerando l’approssimazione organizzativa, il caos che c’è stato, come a dimostrazione che un modo di vivere differente fosse effettivamente possibile.”
Quali furono i maggiori artisti rock che vi parteciparono?
“Una delle cose che ha contribuito a rendere importante Woodstock fu proprio il fatto che si siano concentrate lì alcune delle migliori menti musicali del tempo. Alcuni anzi arrivarono come outsider, praticamente sconosciuti, per loro il Festival è stato un trampolino di lancio. Per esempio Joe Cocker, Carlos Santana, che non era ancora molto famoso all’epoca, Crosby Still e Nash, che hanno fatto una delle cose più belle al Festival praticamente al loro debutto o quasi. Gli Who e ovviamente Jimi Hendrix, che è stato forse il momento musicalmente più emozionante ed epocale.”
La realizzazione del film-concerto omonimo di Michael Wadleigh e la pubblicazione del disco live contribuirono a trasformare in leggenda il megaraduno di Bethel?
“Furono assolutamente decisivi, Woodstock non sarebbe quello che è diventato se non ci fosse stato il film. All’epoca la comunicazione non aveva nulla a che vedere con quella attuale. Le cose non si sapevano in simultanea, comunicate in tempo reale come avviene oggi. Trent’anni fa c’era anche un gap su tutte le cose giovanili, erano poco trattate dall’informazione ufficiale. Il vero moltiplicatore di Woodstock fu il film che girò tutto il mondo e permise a tanti ragazzi, me compreso, di vivere quell’esperienza quasi fosse vera nel senso che quel film era molto innovativo, il primo che tentava un approccio completamente nuovo con la musica. Era un film partecipato, in cui la musica veniva proprio vissuta come se si stesse lì sul palco, non in modo distante o documentaristico.”
Fu un esperimento ma anche una presa di coscienza e come reagì l’opinione pubblica americana?
“In modo controverso nel senso che in quello stesso anno, intenso e contraddittorio, in cui si manifestavano forme repressive abbastanza violente, il movimento giovanile in America cominciava già a declinare. Woodstock fu non solo l’apice ma anche un grande sipario per questo movimento. Nel 1969 era diventato Presidente degli USA Richard Nixon, il quale nel suo programma elettorale non aveva nascosto di avere l’idea di cancellare questo tipo di ribellione giovanile. Iniziò una svolta che portò alla fine del movimento giovanile.”
Cos’è il Woodstock Museum?
“È nato l’estate scorsa. Il libro inizia parlando del Museo perché ci ha colpito molto l’idea che si potesse fare un Museo su di un concerto. Solo in America potrebbe avvenire una cosa del genere. C’è voglia di storicizzazione, di approfondire determinati argomenti. Ce ne siamo accorti quando io ed Ernesto Assante facciamo le lezioni all’Auditorium Parco della Musica di Roma c’è molto seguito e partecipazione.”
Gino Castaldo è nato nel 1950 a Napoli e vive e lavora a Roma. È critico musicale del quotidiano “La Repubblica” e curatore di “Musica”. Ha scritto molti libri, sempre di argomento musicale: La mela canterina, Appunti per un sillabario musicale (1996 Minimum Fax), La Terra Promessa, Quarant’anni di cultura rock (1994 Feltrinelli), Il buio, il fuoco, il desiderio, Ode in morte della musica (2008 Einaudi). Insieme ad Ernesto Assante, critico musicale de “La Repubblica” e collaboratore di molti mensili e settimanali italiani, ha pubblicato: Blues, Jazz, Rock, Pop, Il novecento americano (2004 Einaudi) e Trentatre dischi senza i quali non si può vivere, Il racconto di un’epoca (2007 Einaudi).
Ernesto Assante, giornalista e critico musicale, scrive su “Repubblica”, dove ha realizzato e diretto il progetto di Repubblica.it. Collaboratore di settimanali e mensili italiani e stranieri, tra cui “L’espresso” e “Rolling Stone”, ha lavorato come conduttore radiofonico per la Rai e come autore televisivo per Rai e Mediaset. È autore, tra l’altro, di Paesaggio metropolitano (Milano 1985) e Le leggende del rock (Vercelli 2007). Insieme a Gino Castaldo ha pubblicato, tra l’altro: Genesi. La nascita del rock’n’roll (Roma 1997); Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano (Torino 2004); 33 dischi senza i quali non si può vivere (Torino 2007).