E’ da pochi mesi in ristampa, edito da Bompiani, “La vita agra” di Luciano Bianciardi. Pubblicato per la prima volta nel 1962, questo romanzo è un impietoso e dissacrante ritratto della città attraversata dal miracolo del “boom economico”, dove sotto la patina del benessere emerge il disagio esistenziale di un sistema che integra e spersonalizza.
Il libro narra la storia di un giovane intellettuale della provincia, trasferitosi a Milano per cercare lavoro nella nascente “Industria Culturale”. Così, almeno, lascia intendere alla moglie, ma nei suoi intenti c’è la volontà di vendicare la morte di alcuni minatori, avvenuta a causa della negligenza dei padroni. Il suo obiettivo è quello di far saltare il “torracchione”, il palazzo dove ha sede la dirigenza dell’azienda mineraria, simbolo del potere che antepone gli interessi economici al valore della vita umana. Egli si accorge che la nuova realtà che lo accoglie, e che vorrebbe coinvolgere per portare avanti il suo scopo, è insensibile, indifferente, piacevolmente intorpidita dalle suggestioni del consumismo. Quello che aveva individuato come responsabile della condizione di sofferenza di quei minatori, altro non è che una parte, quella superficiale, di una sovrastruttura che con i suoi valori e modelli ha attecchito nel profondo il modo di vivere di un’ intera collettività, e che finirà per fagocitarlo.
Con una prosa tagliente, leggera, ma al tempo stesso amara e rassegnata, Luciano Bianciardi mette a nudo le dinamiche della società capitalista: l’alienazione della metropoli, la nausea del traffico,la vita che si fa automatismo, sono i temi contro cui si accanisce. Ma nella sfrenata corsa al progresso i vincoli sociali si allentano, i rapporti umani s’inaridiscono e l’empatia cede il passo all’anomia: “Non trovi le persone, ma soltanto le loro immagini, il loro spettro […] Ogni mattina la gita in tram è un viaggio in compagnia di estranei, che non si parlano, anzi di nemici che si odiano”.
Ben prima di molti sociologi, l’autore ha saputo cogliere gli effetti di una radicale trasformazione socio-culturale, intuendo come la nostra rivoluzione industriale stava cambiando il carattere e gli abiti mentali di un paese contadino ed austero, scopertosi improvvisamente moderno ed opulento; una mutazione antropologica che non sfuggirà ad un altro attento osservatore della nostra società come Pierpaolo Pasolini. Sorprendono, per i tempi non sospetti, i riferimenti alle strategie del marketing e al sesso che diventa altro da sé, che allude, si fa simbolo: “Dicono:guardate come oggi per vendere un’aranciata la si accoppi ad un simbolo sessuale, e così un’auto, un libro, un trattore persino […] “. La rincorsa ai falsi miti delle mode: “Altrimenti come spieghereste le fortune delle diete dimagranti, del modello steccoluto e asessuato, il quale riassume ed eleva a modulo la donna arrivista, attivista, carrierista, stirata, tacchettante, petulante e quindi negata al coito verace?“.
“La vita agra” è anche lo sberleffo al mondo dell’editoria, al suo linguaggio, di cui Bianciardi – da addetto ai lavori – si serve per ridicolizzarla fino a rivelarne il carattere d’ industria che sforna prodotti in serie per un pubblico abituato al consumo, che al supermercato avrebbe messo nel carrello, indifferentemente, cataste di libri e pacchi di pasta. Una profezia che si auto-avvera sull’Italia che fu e che sarebbe diventata, così come oggi la conosciamo, e nella quale, a volte, non vogliamo rispecchiarci.
Luciano Bianciardi (1922-1971) scrittore,giornalista e traduttore dall’inglese. Dopo la laurea in Filosofia si trasferisce a Milano, dove collaborerà per varie testate e case editrici. Il riscontro di pubblico e di critica ottenuto con “La vita agra” saranno la sua fortuna e la sua disgrazia. Si spegnerà a soli 49 anni, inghiottito dalla depressione e dall’alcolismo. Dello stesso autore “I minatori della Maremma” (1955), “Il lavoro culturale” (1957), “Aprire il fuoco” (1969), e i saggi “Da Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille” (1960), “Daghela avanti un passo” (1964).