Libri come esperienze, e che fuori dall’esperienza non contano nulla: si potrebbe sintetizzare così il senso della lettura per Henry Miller. Lo si potrebbe intuire anche solo leggendo i suoi romanzi, ma l’assunto diventa chiarissimo alla luce de I libri nella mia vita, ora nella Biblioteca Adelphi.
Miller non era uno scrittore-studioso, uno alla Joyce per intendersi – che difatti rispettava e ammirava per il lavoro linguistico ma non amava. I libri li leggeva per quanto di vitale fosse in loro: “i libri sono parte della vita quanto gli alberi, le stelle o il letame. Io non ho alcuna reverenza per i libri in se stessi”. Ciò va inteso preliminarmente per fare la tara ai suoi giudizi in materia. Che non sono quelli di un critico ma rispondono alla sete di vita che è un contrassegno fondamentale della sua stessa essenza di scrittore. A partire dai libri di base, come per la maggior parte di noi quelli dell’infanzia (specie George Alfred Henty) per passare attraverso il rifiuto nell’adolescenza di Hardy o Dickens e dei loro romanzi “cupi, tragici, pieni di sventure” (lì agisce, lo confessa lo stesso Miller, una sua “profonda e misteriosa avversione per tutto ciò che è inglese”). E poi gli autori che ebbero la loro parte nell’influenzarne il cammino. Il poeta Blaise Cendrars su tutti, personaggio straordinario che sapeva nello stesso tempo tenere in una sola persona il grande viaggiatore (“l’avventuriero, l’esploratore”) e l’uomo da biblioteca. Uno scrittore che incarna ai suoi occhi come nessuno il senso della parola “rivelazione”. E ancora Céline, Breton, o un mistico come Krishnamurti. Questo vitalismo, che contiene in nuce il rischio dell’oltranza e perciò stesso dell’enfasi, spiega anche l’attrazione per uno scrittore ad avviso di chi scrive sopravvalutato come Lawrence, ridimensionato poi dallo stesso Miller nel paragone con Jean Giono, altro autore i cui libri “aumentano la vita”; così come l’effetto calamita esercitato su Miller da libri che portassero la parola “Confessioni” nel titolo. E ancora: il tono nostalgico che, scrive, muove in parte il suo libro: “non la nostalgia per il passato in se stesso (…) ma la nostalgia per certi momenti vissuti al massimo”.
Il non essere un critico fa dire a Miller che nella bontà di un libro, di uno stile v’è sempre qualcosa di imperscrutabile, il che farebbe addrizzare i capelli a qualsiasi formalista. Ma non gli si può dare torto quando individua nella lettura ad alta voce un via per saggiare la consistenza di un testo. Gli succede per esempio con Thomas Mann: lo ammira per anni, poi gli capita casualmente di leggerlo a un amico ad alta voce (ma temiamo in francese) e Morte a Venezia gli si “sgretola fra le mani”. Forse più ingeneroso con i Buddenbrook che gli fecero lo stesso effetto di “artificiosità”.
Libro corposo (ben più di 400 pagine) non riassumibile in poche righe, con sapide scorribande sulle letture “al gabinetto” e meticolose appendici sui libri più importanti per la sua vita di scrittore e quelli ancora da leggere… E sorprese inevitabili in un viaggi fra le letture e i discorsi sulla letteratura di un grande scrittore: come quando ti imbatti in un parziale elogio della smemoratezza che, ricordi vagamente, ti pare di aver letto in un’intervista a un artista insospettabile, lontano anni luce dal Nostro, la cui grandezza apparteneva a un genere del tutto diverso: Jorge Luis Borges.
Henry Valentine Miller (New York, 26 dicembre 1891 – Pacific Palisades, 7 giugno 1980) scrittore americano di libri memorabili come Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno è stato anche saggista, reporter e pittore.
Autore Henry Miller
Titolo I libri nella mia vita
Editore Adelphi
Anno 2014
Traduzione di Bruno Fonzi.
Pag, pp. 414
€ 24,0