L’officina di un capolavoro è sempre interessante. Per addetti ai lavori e non. Anzi, per i secondi può essere un modo per avvicinare le cose dell’arte in maniera più sensibile. Non per un’aneddotica di mere curiosità ma come un viatico per cominciare a intendere concretamente quali sono gli snodi fra creatività, possibilità, contingenze materiali – accidenti imprevisti, anche, dubbi ed errori.
Se al riguardo un libro imperdibile, sebbene di carattere più generale, è il recente Come funziona la musica dell’ottimo David Byrne, una vicenda specifica invece è quella che racconta George Martin, uomo di molti interessi e professioni (produttore, compositore in proprio, sceneggiatore etc), conosciuto per lo più come personaggio chiave nella storia della band che ha legittimamente scritto il proprio nome non nella storia della musica del ‘900 ma nella storia tout court, essendo i Beatles (di cui parliamo) “fenomeno” anche sociale e bla bla bla.
Il titolo del volumetto, L’estate di Sgt.Pepper, ricostruisce per l’appunto il laboratorio di idee e tentativi che diedero vita al celebre album, uscito nello stesso periodo di The Piper at the Gates of Dawn, esordio del gruppo psichedelico per eccellenza, i Pink Floyd. Dischi che vengono comunemente messi in rapporto fra loro per annose faccende di “primogenitura” e “spartiacque” e “svolta epocale” per stabilire chi per primo abbia indicato nuove strade nell’ambito di una musica estranea tanto alla dimensione culta che a quella pop conosciuta sino ad allora.
Non ci addentriamo nella contesa, certo tutti sanno che a parte alcuni momenti di Revolver del ’66, è con il concept del Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band che i Fab Four avvicinano sonorità e forme della “canzone” che oggettivamente la oltrepassano – laddove per i P.F. la destrutturazione e il contestuale cosmico onirismo aperti virtualmente all’infinito (letteralmente di un “brano” che non è più tale se non per ragioni di mercato, fabbricazione discografica e concreta fattibilità live) sono per così dire basic.
Lo splendido album di Lennon e soci però non può accontentarsi di alcuna posizione d’onore: sicché meglio appare trattarlo in proprio. Come fa il loro produttore appunto, alle prese con genesi e produzione, ispirazioni e cronaca lavorativa, amicizia e frizioni, temi o ossessioni di ognuno.
Martin, che li aveva conosciuti nel ‘62 e non ne era stato impressionato (come dargli torto? solo quando aggiunge che “fino a quel momento – il ’67 appunto – la musica dei B. era stata come un chewing gum”), entra poderosamente nel progetto. Un’estate fin troppo mitizzata, flower power quanto si vuole, ma qui si trattava di lavoro: Martin è un manager e sa cos’è la musica, combinazione non scontata; così approva o censura, tiene i quattro in studio senza pause per sei mesi, “monta” il lavoro secondo un ordine preciso, sostiene la volontà dei quattro di vendere comunque nonostante l’eccentricità del disco. Vivido il racconto, pieno di dettagli sulle fasi della registrazione – il combinato di faccende tecniche e idee artistiche. Di come ad esempio il manager è costretto a mettere da parte snobismo e riserve per il povero Harrison fino a quando il malinconico George gli squaderna Within You Without You; o le perplessità destinate a trasformarsi ben presto in ammirazione per l’idea di Paul di usare un’orchestra. Libro che restituisce la verve di un momento storico e di un disco irrinunciabile.
Sir George Henry Martin (1926) è un produttore discografico e compositore britannico.
Autore: George Martin
Titolo: L’estate di Sgt. Pepper
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: La Lepre
Traduzione: Paolo Somigli
Pagine: 250
Prezzo: 14,90 euro