“Morto il padre, la distanza tra di loro era diventata come tante pietre di silenzio messe una dopo l’altra, tutte in fila da Roma fino a Pittsburgh”. Germano ed Emilio sono Figli dello stesso padre, l’ultimo intenso romanzo di Romana Petri (Longanesi 2013) che esplora con estrema lucidità quella ragnatela di rapporti che lega i figli ai genitori.
Al professor Emilio Acciari, marito e padre affettuoso, nonché accademico presso la Facoltà di matematica dell’Università di Pittsburgh piaceva che nella sua vita ci fosse sempre un programma, perché fin da bambino aveva scoperto che lasciare tutto nelle mani del caso poteva essere rischioso. Quando nacque sua madre Costanza aveva compiuto 43 anni, mentre suo padre era sposato con un’altra donna e aveva un figlio di 9 anni. Costanza era stata quindi una madre che aveva fatto tutto da sola, perché Giovanni si era rivelato presto una delusione: depresso cronico, il suo debole erano le donne e tendeva a risolvere i problemi bevendo. Emilio paradossalmente aveva imparato dall’osservazione delle formiche il senso della fedeltà. Germano, artista di successo, a 49 anni non si era ancora sposato e la sua vita sentimentale fin da quando era giovane era stata piuttosto movimentata e tutto quel movimento di allora, lui a Roma con la madre Edda, il piccolo Emilio a Milano, gli aveva attaccato addosso qualche freno. “Tu volevi bene a mio padre?” era la domanda ricorrente che Germano ancora adesso rivolgeva a sua madre. Giovanni era sempre stato conteso tra i suoi due figli maschi, ma quel padre tanto fallibile e disorientato quanto affascinante, colpevole di aver preferito il primo al secondogenito, mai era stato criticato tanto in una vita intera. Da morto invece quest’eterno insoddisfatto era stato rimpianto, “Figli dello stesso padre ma di due madri diverse… ”. L’invito all’inaugurazione della mostra di Germano rivolto a Emilio forse sarebbe stata l’occasione per riallacciare un legame di sangue mai interrotto del tutto. “Ho quarant’anni e voglio riconciliarmi con lui, voglio prendermi ciò che non ho avuto”.
L’autrice nel romanzo che la Longanesi candida al 67esimo Premio Strega, indaga tutti quei meccanismi imperfetti che si vengono a creare all’interno di un nucleo famigliare ancora più delicato se la famiglia è “allargata”, che è anche un affresco storico del nostro Paese nell’arco di quasi un cinquantennio. Dopo le indimenticabili figure di eroine ritratte dall’autrice con passione, quale Maria Do Ceu di Ovunque io sia e Alcina di Tutta una vita, ora Romana Petri presta la sua sensibilità di scrittrice per tratteggiare due personaggi maschili fragili e forti allo stesso tempo, i quali con il loro cammino di vita non sono altro che lo specchio della nostra società smarrita e confusa.
Dopo aver letto questo bel romanzo che ci conferma ancora una volta quanto possa essere forte il richiamo del sangue, non possiamo che essere d’accordo con la riflessione di Antonio Tabucchi legato da profonda amicizia con Romana Petri: “C’è un profumo nella letteratura di Romana Petri, un profumo che ci piace e le siamo riconoscenti”.
Nel romanzo i personaggi femminili appaiono più forti e determinati, mentre gli uomini per contrasto sembrano smarriti, non riescono a fare i conti con la banalità dell’esistenza. Cosa ne pensa al riguardo?
Io non credo che Emilio e Germano siano particolarmente smarriti, hanno piuttosto scelto entrambi una via drastica per essere totalmente diversi dal loro padre. Emilio adottando un rigore esagerato, cercando di essere un marito e un padre esemplare, Germano rifiutando di essere sia marito sia padre, perché la famiglia per lui è sinonimo di distruzione e di ferite, e così, non sposandosi e non mettendo al mondo dei figli, è convinto di risparmiare agli altri il dolore. Sono in realtà due uomini sofferenti perché per difendersi, hanno dovuto scegliere dei difficili assoluti di vita. Insomma, chi l’apollineo e chi il dionisiaco, elementi, che, come ben sappiamo devono fondersi per creare un equilibrio. Emilio è dunque tutto “rappresentazione” esteriore, Germano tutto interiorità e rovello.
“Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. L’incipit di Anna Karenina di Tolstoj è sempre terribilmente attuale, non trova?
Io credo che il vero significato di questa bella frase sia semplicemente che sulla felicità c’è ben poco da dire. La felicità si vive e basta. È invece verso l’infelicità che sentiamo il bisogno di interrogarci, anche perché sappiamo che la risposta a questo moto dell’anima è trovabile e introvabile allo stesso tempo. Tutto è giusto e ingiusto nella vita, l’importante sarebbe arrivare alla conclusione che entrambi sono però giustificabili. È questo il cammino che Germano ed Emilio dovranno fare quando s’incontreranno a quattro anni dalla morte del padre.
Ha inserito nel libro il personaggio del portoghese Duarte. È un omaggio alla sua terra d’elezione?
Quando si vive in due paesi, è abbastanza normale mescolare nazionalità all’interno dei propri romanzi. È quel tocco di autobiografismo che viene fuori quasi in modo spontaneo.
Sempre meno italiani leggono almeno un libro all’anno nonostante l’aumento della produzione libraria complessiva. Come si potrebbe invertire la rotta?
È molto difficile invertirla. Forse ci dovrebbe essere una televisione diversa, forse un po’ meno televisione, un po’ meno internet e più voglia di parlare e di raccontare. Fino a qualche tempo fa c’era anche una sana distinzione tra vera letteratura e letteratura di evasione. Erano gli stessi critici e editori a saper fare la differenza. Oggi non è più così, nelle stesse collane c’è il buon livello e il cattivo livello. I critici recensiscono con la stessa facilità libri importanti e libri insignificanti. Insomma, c’è molta confusione. E la confusione è pericolosa.
Il romanzo è candidato al 67esimo Premio Strega. Cosa ne pensa della recente polemica scaturita dall’articolo apparso sul quotidiano La Repubblica nel quale Emanuele Trevi ha annunciato la sua autosospensione dal comitato dei 400 Amici della domenica che compongono la giuria del Premio Strega lamentando le pressioni delle case editrici per l’assegnazione del Premio e la non parzialità dei giurati che per quelle case editrici lavorano?
Direi che se lo poteva risparmiare. È votante da 20 anni e si dimette solo ora che non ha vinto, anzi, a quasi un anno dalla mancata vittoria. Poteva farlo prima, o, meglio ancora, nel caso ne fosse uscito vincente. E denunciando così che ogni vittoria, compresa la sua, non è mai del tutto autentica. Ha perso l’occasione giusta e si è lasciato condizionare da una digestione troppo lenta. Ma le digestioni difficili, si sa, con la coerenza non vanno sempre d’accordo. Personalmente, a questo premio partecipo volentieri e a cuor leggero.
Romana Petri ha pubblicato vari romanzi e raccolte di racconti con i quali ha vinto i Premi Mondello, il Rapallo – Carige e il Grinzane Cavour ed è stata finalista al Premio Strega 1998 con Alle case venie (Marsilio). Le sue opere sono state tradotte in Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Olanda e Portogallo. È editrice (Cavallo di Ferro) e traduttrice e collabora con il Messaggero. Vive tra Roma e Lisbona. Presso Longanesi è uscito Tutta la vita (2011).
Autore: Romana Petri
Titolo: Figli dello stesso padre
Editore: Longanesi
Anno di pubblicazione: 2013
Prezzo: 16 euro
Pagine: 350