«Memore dell’operazione geronimiana, la presente Vulgata sarà da un lato una traduzione dell’architettura sintattica del nostro pensiero, dall’altro un commento dell’opus tradotto». È opportuno fare uso delle parole dell’autore Daniele Radini Tedeschi come incipit al discorso sul volume Caravaggio o della Vulgata (De Luca editori, 2012) poiché ciò che qui si presenta è tutt’altro che una semplice monografia sul celeberrimo Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Si potrebbe iniziare dal titolo, della Vulgata, per capire a chi sia destinato questo volume. La Vulgata è, per vocazione, destinata ad un’ampia diffusione, è pop nella sua accezione meno becera. La domanda a questo punto è: cosa vuole conoscere il lettore (medio?) di Caravaggio, che vada al di là del già arcinoto dato aneddotico (risse e dubbie frequentazioni) e dell’iper-intellettualistico disquisire su documenti, fonti e radiografie dei dipinti? L’autore di un libro che abbia “Caravaggio” nel titolo deve tenere in considerazione anche il pubblico dei più o meno esperti esegeti del Merisi e della pittura seicentesca, sempre pronti al contrattacco. Posto si tratta di un argomento alquanto spinoso, cosa può offrire ai lettori un ulteriore volume a lui dedicato? Quello che Daniele Radini Tedeschi intende offrire è un altro punto di vista. Altro rispetto alla doxa longhiana, per intenderci.
Per certi versi il libro ripropone gli elementi canonici dello studio di Caravaggio: non mancano i capitoli sulla biografia di Caravaggio, successivi ai Prolegomeni introduttivi, che – seguendo l’ordine cronologico – trattano delle vicissitudini dell’artista dagli esordi presso il Peterzano (Capitolo I) fino alla morte nel 1610 (Capitolo II). Tuttavia già in queste pagine l’autore propone spunti diversi e nuovi: il demoniaco, l’elemento dionisiaco e la bellezza corrotta son i temi che indica come portanti della prima attività dell’artista, derivanti dall’influenza dell’Accademia della Valle del Blenio, dove il «giovane fanciullo ribelle ebbe modo di respirare in questo clima culturale, non certo casto e ordinario, un’atmosfera viziosa e al limite della blasfemia» (p. 52). Vengono cercati i precedenti (veri, come specifica l’autore) della pittura caravaggesca, andando però al di là di quella che l’autore definisce la «filastrocca Savoldo, Moretto, Moroni» di Roberto Longhi; viene analizzato il fenomeno luministico, scardinando il meccanicismo longhiano e l’accezione teofanica della luce teorizzata da Calvesi.
Si capisce, già da simili premesse, come Daniele Radini Tedeschi voglia superare la versione ufficiale dell’affaire Caravaggio, rifondare il discorso sull’artista, adottando la disciplina da lui stesso definita “iconosofia”, ovvero lo studio della trasmissione di saperi ermetici attraverso un’ermeneutica iconologica. Un punto di vista alternativo richiede quindi postulati e interrogazioni preliminari alquanto particolari. L’autore non si risparmia perciò l’indagine sulla intima religiosità dell’artista: perché non dipinge mai Dio? La luce è metafora di Dio o dello Spirito Santo? Caravaggio era vicino ai gesuiti filospagnoli (come attesterebbero le sue tele di ispirazione mistica) oppure agli oratoriani filofrancesi (come potrebbe dirsi dalle attitudini dei suoi personaggi, oranti e scalzi)? Sembra quindi che nemmeno Radini Tedeschi abbia resistito alla tentazione di parlare dell’uomo Caravaggio, cedendo al fascino di un artista che chiama ogni storico dell’arte ad osservare i meandri della propria psiche, trascinandolo in un dedalico labirinto che spesso porta fuori strada. Perché cercare le ragioni della fortuna delle opere di Caravaggio (fenomeno certamente ambiguo) nella biografia di Michelangelo Merisi spesso porta ad elucubrazioni se non errate, senza dubbio incomplete o stravaganti. Un esempio può essere quello del dipinto della Morte della Vergine, vero nodo cruciale dell’intero libro. La modella usata per raffigurare la Madonna era la celebre meretrice Annuccia Bianchini, tuttavia non fu tanto la moralmente dubbia amicizia del Merisi con la famosa signora a causare il rifiuto da parte dei committenti, quanto – verrebbe da immaginare – il fatto che la Vergine non muore, ma si addormenta, per essere poi assunta in cielo in carne ed ossa in virtù della sua nascita immacolata (senza peccato originale).
Nonostante le concessioni all’analisi introspettiva dell’artista, l’autore non abdica l’analisi più strettamente stilistica, che propone nell’ultima parte del saggio con la questione delle opere di dubbia attribuzione e dei “doppioni” o “cloni”, ovvero le diverse versioni della stessa opera.
Complessivamente Caravaggio o della Vulgata appare come un compendio di filosofia e di estetica, in cui sono i postulati filosofici ad offrire il punto di partenza per le riflessioni, contrariamente alla produzione di Roberto Longhi, che proprio l’opera d’arte come principio di qualunque discussione.
La pittura di Caravaggio diventa, per Radini Tedeschi, il casus belli per imbracciare il fucile ad inchiostro contro la critica precedente, nella fattispecie longhiana, nonostante in più parti egli stesso ceda alla prosa lirica ecfrastica, grande lascito del professore di Alba. Questa “Vulgata caravaggesca” offre senza dubbio spunti differenti e nuovi, sui quali vale la pena riflettere. Tuttavia il titolo è alquanto ambizioso, poiché se la Vulgata di san Girolamo divenne in breve tempo la versione ufficiale della Bibbia, appare difficile poter assumere come universalmente valida una delle varie esegesi di Caravaggio.
Autore: Daniele Radini Tedeschi
Titolo: Caravaggio o della Vulgata
Editore: De Luca
Pagine: 333
Prezzo: 40 euro