Inizia nel 1936 il diario che Daniel Pennac, colpito dalla sua forza, s’incarica di far pubblicare dal suo editore francese (noi lo leggiamo in traduzione col titolo “Storia di un corpo“, al solito, Feltrinelli). Nella finzione pensata dallo scrittore il “documento” sarebbe il frutto di più di mezzo secolo di lavoro (perseverante e ostinato) a opera del padre di una sua amica, Lison, che se lo è visto recapitare dal notaio come dono inatteso del padre appena morto.
Il quale, senza che la donna ne sapesse nulla, si era accanito per tutta la vita a registrare meticolosamente la vita del proprio corpo. Concentrandosi specialmente su tutta quella fenomenologia che solitamente la letteratura, ma direi tutto il discorso pubblico (e spesso persino quello privato – mai del tutto liberati dall’autocensura della tragedia classica), tiene fuori scena. Escrezioni, ingrossamenti, diarree, tumescenze, turgori piacevoli o dolorosi, tutto ciò che costituisce l’unica vita vera, la sola indubitabile, dall’adolescenza di un uomo comune alla sua morte. Per dire, naturalmente, con Carmelo Bene, che noi “non abbiamo un corpo” ma siamo un corpo. Così, in un romanzo che non è un romanzo, che se ne infischia di trame e intrecci, si esibisce e mette in mostra l’unica sola vera “storia di un’anima” oggi. Che l’anima sia il corpo, il narratore lo scopre da ragazzo – penserete, col primo getto di sperma. No, sebbene la vita sessuale costituisca l’inevitabile apice della faccenda, masturbazioni compulsive comprese.
Accade in seguito a un gioco sfortunato in cui finisce da scout, tredici anni non ancora compiuti. Si ritrova sommerso da formiche, se la fa letteralmente addosso dalla paura: è terrorizzato. L’orribile emozione si traduce in qualcosa di fisico; azione e reazione attraversano il corpo: è l’unica certezza che ha (che abbiamo). Di lì, l’uomo si mette in testa di annotare qualsiasi cosa, ogni sensazione che col corpo abbia a che fare, dalla “tirannia delle flatulenze” all’estrema disponibilità del suo sesso per le carni della moglie: col tempo, va da sé, con l’invecchiamento (questo processo di “ossidazione”) le sensazioni si fanno sempre meno divertenti. Anzi, è il dolore ovviamente a farla da padrone. Operazioni chirurgiche, disavventure della prostata, cateteri. E denti e capelli che cadono, un processo di disfazione inarrestabile. Ma l’accettazione di questa realtà che è il corpo, non implica una buddistica rinuncia a esso. La memoria cellulare non perde mai contezza di ciò che è stato, e del possibile cui la speranza non rinuncia sino alla fine: il godimento, il piacere.
Anche grazie a questo, ai tentativi più o meno buffi di ritrovarlo, di dilatarlo, di rinnovarlo, il libro in molti punti lo è, divertente. Il che è una notizia, perché non solo non se ne poteva più del paradiso degli orchi e allegra compagnia, ma non è che dopo il ciclo di Malaussène, Pennac ci avesse incantati. Gradita sorpresa, questo journal, per la donna che lo riceve dal padre e lo consegna a Pennac, e per noi che lo abbiamo fra le mani.
Daniel Pennac, già professore di francese in un liceo parigino, è autore della serie di romanzi centrati sulla figura di Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio, e della sua colorita famiglia, tutti editi da Feltrinelli tra il 1991 e il 1999, fra i quali: Il paradiso degli orchi, La fata carabina, La prosivendola, Ha vinto il Premio internazionale Grinzane Cavour “Una vita per la letteratura” nel 2002.
Autore: Daniel Pennac
Titolo: Storia di un corpo
Traduzione: Yasmina Melaouah
Editore: Feltrinelli
Pagine: 341
Prezzo: 18 euro