Curzio Suckert detto Malaparte (1898-1957). A lui è dedicata una biografia ponderosa, “Vite e leggende” – simpatetica ma non compromessa da eccessiva indulgenza -, del saggista e diplomatico Maurizio Serra.
Quella di Malaparte, giornalista e attivista politico oltre che scrittore, è una figura che la cultura italiana continua a maneggiare con circospezione: destino inevitabile per un paese conformista e familisticamente organizzato per comunelle (in letteratura più che altrove) dove si ha paura di pronunciarsi quando l’ambiguità estetica si accompagna a quella politica.
Malaparte, una vita non comune, come si suol dire in questi casi un romanzo in sé, via via sedotto dal fascio e, meno convinto, dalle falci e martelli, narcisista come pochi, oltranzista si direbbe per temperamento, ma – è il giudizio di Serra – non un voltagabbana, a suo modo coerente (molto a suo modo), intollerante a ogni sentore di horror vacui così da colmarlo con una serie di veloci passaggi e dismissioni di maschere e funamboliche trasformazioni, vitalista ma non decadente (qui dubito che le definizioni siano quelle giuste), attratto sempre e comunque dalla forza, al fondo diffidente come uno di quei “maledetti toscani” che raccontò in un libro minore e tardo (sempre il giudizio di Serra).
Il volume di Serra è minuzioso, dettagliatissimo, molto ben scritto (in francese, e tradotto da Alberto Folin). Descrive un tipo d'”eroe” (o aspirante tale) freddo, anaffetivo, che anche in amore “si amministrava meticolosamente“, mai stanco di auto promuoversi, bravissimo a riscrivere la sua stessa storia, a modificarne le cause nel tentativo di mutarne gli effetti man mano che il clima cambiava, attratto violentemente dal Duce fino a quando non lo bollerà come “il grande imbecille” (perché sconfitto – e molti non gli perdoneranno questo voltafaccia) e da Gobetti, che paga con la morte le sue scelte di intransigente avversario del fascismo (e Malaparte è sufficientemente onesto con se stesso da riconoscerne la grandezza).
Lucido ma non aristotelico nella sua logica, estetico più che etico, insieme crudo e impressionistico nelle sue analisi, “Strapaese” e “Stracittà”, le contraddizioni di Malaparte sono un manuale dell’impossibile. Fino alla fine. Alla ben famosa casa di Capri, dura e squadrata (altro che villa scrive Serra), come a dare un’immagine di sé fiera e scabra, un “autoritratto di pietra”, “militare”. Salvo poi, probabilmente per ragioni economiche, pensare di trasformarla in un locale notturno. Come sempre, a toccare gli estremi. Persino la sua morte si presta a una lettura paradossale.
Dovette andare in Cina perché gli venisse diagnosticato il tumore che se lo porterà via nel 1957. Nella Cina maoista in cui forse credette di trovare (ma qui il paradosso è solo apparente) qualcosa del fascismo delle origini. Fascismo di sinistra, lo chiamavano. In ogni caso, il punto è l’intolleranza verso il liberalismo borghese. “L’essenziale – scrive Serra – è imporre il sigillo di una volontà potente a chi ha il compito di ubbidire: nazioni, popoli, individui”. Che è anche dannunziana insofferenza per le masse. Se in Viva Caporetto, libello seguito alla sua esperienza nella Grande Guerra, non risparmia i vertici militari artefici di quell’indimenticabile scempio, non salva nemmeno i soldati. Lo stesso Malaparte che non risponde né alla chiamata dei repubblichini, né a quella dei badogliani. Perché, dice il biografo, rifiutava la guerra civile. Lui, l’esteta armato.
Vale la pena leggere questo libro, che invero è un piacere; ché molto racconta della storia italiana e internazionale del ‘900. E poi si torni ai romanzi, e li si legga per quello che sono.
Maurizio Serra, scrittore e diplomatico (attualmente ambasciatore italiano all’Unesco). Autore fra l’altro di La Francia di Vichy (Le Lettere), e La ferita della modernità (Il Mulino)
Autore: Maurizio Serra
Titolo: Malaparte (Vite e leggende)
Traduzione: Alberto Folin
Editore: Marsilio
Anno di pubblicazione: 2012
Pagine: 592
Prezzo: 25 euro