I grandi se ne vanno così, un giorno come tanti altri, mentre ti stai svegliando, magari mentre saluti la donna che ami con un sorriso, se ne vanno come sono venuti al mondo, in silenzio, portando al cuore l’ultimo applauso del pubblico per stringerlo a sé, per renderlo eterno.
E così, all’improvviso, ci ha lasciato Lucio Dalla, uno dei cantautori più emozionali del nostro tempo, che è riuscito a penetrare nel codice genetico della musica italiana cambiandola per sempre.
Se Lucio Battisti ha rivoluzionato la musica leggera con Mogol, Dalla ha ibridato le molteplici tradizioni che il nostro Paese conserva, creando un miscuglio di sonorità dove la leggerezza della musica faceva da contrafforte ai temi non sempre spensierati che Dalla cantava. Ma il piccolo grande bolognese apparteneva al mondo, era un jazzista nero di New Orleans e un consumato blues man di periferia, uno scugnizzo che saltellava tra le note di una canzone e un poeta delicato che raccontava un amore rivolto sempre al futuro.
Lucio Dalla era questo soprattutto, un uomo che rimirava l’orizzonte con passione e speranza, pensando più al giorno, al mese e all’anno che verrà che a quello appena trascorso. La sua morte sembra innaturale, sembra quasi un furto, una cosa da scatenare una guerra tra uomini e dèi, perché la presenza di Lucio Dalla nella vita culturale del Paese era qualcosa di certo e inequivocabile, quel mondo fatto di “tante finestrelle colorate”, di “disperati ed erotici stomp”, di mari che luccicano, di “santi che pagano il pranzo”, di figli sperati e sogni scoloriti, in quel mondo ci siamo nati e vissuti senza badare tanto alle generazioni e alle cose che cambiavano, in quel mondo non esiste il tempo della storia, ma solo quello del cuore che batte e non sa fermarsi.
Dalla è morto come il grande tenore Caruso, in un hotel che si affacciava su uno specchio d’acqua, come Caruso ha saputo essere uno spregiudicato innovatore della voce e della parola cantata, come Caruso ha legato il suo destino al suo vagare per il mare della scoperta. Era un esploratore Dalla, che guardava ogni cosa con gli occhi e la curiosità del bambino, lo stesso bambino che si condeva lazzi e sorrisi durante i concerti, trasformandolo in una dolce figura circense.
Con Lucio Dalla perdiamo i suoi occhi, capaci di ridere del futuro e del presente, di raccontare di quella volta che incontrò una puttana o che strinse la mano ad un re, perché Dalla era così, aulico e popolare, elegante e straccione, piccolo e forte, basso ma alto, era la contraddizione più bella della musica d’autore e ci mancherà, non basteranno le raccolte che ci propineranno e che forse compreremo, ci mancherà la canzone che parlerà alla nostra anima senza farcelo pesare.
Rimane il rammarico per non averlo potuto salutare per bene, per non aver pensato a quanto fosse importante la sua presenza sul palco dell’Ariston mentre dirigeva e cantava “Nanì” il suo ultimo regalo, perché come scriveva Foster Wallace “è difficile notare quello che vedi tutti i giorni”, ma “Nanì” è il suo testamento, è la sincera storia di quanto amore si può dare senza pretenderlo in cambio e se lo avessimo saputo prima che Lucio Dalla avrebbe fatto finire così il primo atto lo avremmo abbracciato un po’ di più e lui ci avrebbe sussurrato: “Amore mio non devi stare in pena,
questa vita è una catena,
qualche volta fa un po’ male”.
Se in questi giorni volete capire meglio la figura di Lucio Dalla, vi consiglio il libro-Dvd, “Gli occhi di Lucio”, scritto con Marco Alemanno. E’ una biografia pura, senza orpelli, dove stelle e parole vanno di pari passo e dove con la fisarmonica sotto braccio possiamo ritrovare la semplicità di un grande innovatore della canzone italiana.
Autori: Lucio Dalla & Marco Alemanno
Titolo: Gli occhi di Lucio. Con CD Audio. Con DVD
Editore: Bompiani
Pagine: 168
Costo: 20,50 euro