C’era l’avanguardia, una volta. Anche in musica. E c’era la musica sperimentale. Almeno, così la definì quello che sarebbe diventato un suo protagonista, non sempre strepitoso, Michael Nyman, autore di un testo, La musica sperimentale, che porta la data ormai lontana de 1974 ma soltanto ora appare tradotto in italiano grazie alle meritorie Edizioni Shake.
Molti hanno superficialmente inteso le espressioni avanguardia e sperimentalismo allo stesso modo. Qui invece si definiscono in antitesi. La musica cui si riferisce Nyman è per lo più di provenienza angloamericana, si concentra essenzialmente, almeno all’inizio, intorno alla figura di John Cage che quando scoprì la farragine affaticata della serie dodecafonica si domandò se il caos avesse bisogno di tanto artificio, in modo non dissimile dal monaco zen che evita di camminare sulle acque e passa tranquillamente il guado.
Rispetto alla tradizione accademica, a Darmstadt, a Boulez, Xenakis, Berio che scrivono la loro musica sulla scia delle prime avanguardie europee e dunque seguendo “il sentiero molto battuto ma santificato della tradizione post-rinascimentale” (come lo definisce il musicista inglese) ciò che accade con 4’33’’ di John Cage (il celeberrimo pezzo sul silenzio, così è conosciuto da molti) – che Nyman prende a paradigma di questa nuova musica proprio perché “vuoto” e dunque “ricco di possibilità” – è lo slittare da un “tempo-oggetto” nel quale i materiali musicali sono predisposti e strutturati, verso una “situazione nella quale i suoni possano avvenire, un processo per generare un’azione (sonora o meno), un campo delineato da certe regole compositive”.
Questo è solo l’inizio, ancora prima di Morton Feldman, o Cornelius Cardew, giusta la nozione di processo, che non concerne evidentemente solo “il brano”, “l’opera” in sé, ma i suoi esiti successivi, compresi ovviamente quelli non previsti (con qualche dubbio che un inatteso storicismo rientri dalla finestra, magari nella versione postmoderna di un neoromanticismo molto incline ad accarezzare l’ascoltatore secondo principi di gradevolezza che allo zen di John Cage sarebbero risultati alieni – ma questo è un altro discorso).
Tenendo conto sia degli aspetti tecnici e materiali del “fare musica”, sia delle visioni del mondo in essa implicate, Nyman dispiega un bel quadro di una stagione della storia musicale novecentesca. Dai procedimenti casuali e arbitrari a quelli più o meno “organizzati”, dall’I Ching dello stesso Cage agli elenchi telefonici di La Monte Young, dall’indeterminatezza alla seduzione della musica modale, più che la permanenza conta il momento-movimento: non stupisce l’interesse che in molti, specie fra i minimalisti, hanno poi mostrato per l’Oriente, inteso non solo in un’ottica musicale (da Young, che viene considerato come il padre di questa musica, a Steve Reich a Terry Riley etc – non senza l’apporto, accanto all’India dei raga, o ai gamelan balinesi, di fondamentali nozioni ritmiche e rituali di provenienza africana).
Il libro è preceduto da una breve prefazione di Brian Eno, che all’epoca dell’uscita del libro era molto giovane e percepì la faccenda dentro una concentrazione di poli opposti: la sensualità dell’aspetto sonoro e una possibile valenza “spirituale”. In entrambi i casi di lì lo scaltro e geniale non-musicista (come gli è per anni piaciuto definirsi, essendo incapace di suonare uno strumento) ne derivava una domanda basica: la musica è per forza di cose fatta di note e di strumenti? Vero che poi le sue soluzioni, come quelle dello stesso Nyman, col tempo si sono dimostrate decisamente sentimentali – e certo minimalismo indulgente, a risentirlo oggi, non appare la versione più interessante di questa storia.
Invece ritengo il volume imperdibile per chiunque volesse saperne un po’ di più – e dal di dentro di uno sguardo che è teorico e artistico insieme – su musicisti quali Robert Ashley (autore di lavori davvero splendidi), Christian Wolff, Gordon Mumma, Alvin Lucier. Alla bisogna, a parte un discreto repertorio fotografico, il libro contiene una ricca discografia.
Nyman Michael (Londra 1944) è uno dei massimi compositori viventi, nonché uno dei maestri indiscussi del minimalismo, la corrente musicale di Philip Glass, Steve Reich, John Adams e Wim Mertens. Sono sue alcune delle colonne sonore più memorabili del Novecento, da quella per L’ultima tempesta di Peter Greenaway, a Lezioni di piano di Jane Campion, a Wonderland di Michael Winterbottom. Oggi, il musicista inglese tiene concerti in tutto il mondo, mentre decine di registi lo inseguono per fargli comporre le musiche dei loro film. Suoni che nascono “da un’angoscia musicale molto personale”, e riescono a combinare folk, elettronica, musica sacra e classica, in una miscela sonora emozionante, perché la musica – spiega – “è potenza, passione, istinto, dolore”. Partito dalle sorgenti del minimalismo, Michael Nyman si è poi proiettato verso nuove, ardite traiettorie musicali. Diplomato alla Royal Academy of Music e King’s College di Londra, dopo un periodo trascorso a studiare musica folklorica romena, Nyman abbandona per alcuni anni la composizione per affermarsi come critico musicale (nel 1968, è lui ad applicare per la prima volta alla musica il termine “minimalismo”), scrivendo saltuariamente musica per teatro e per alcuni cortometraggi. Nel 1974 pubblica La musica sperimentale e, un paio di anni dopo, fonda la Michael Nyman Band. Si è interessato alla tradizione sperimentale lavorando anche come musicologo e critico per la storica rivista inglese “The Spectator” alla fine degli anni sessanta e da quella tradizione ha attinto per elaborare il suo personale stile compositivo. Tuttavia, Nyman è anche conosciuto per i suoi lavori musicali non legati ai film. Negli ultimi anni ha deciso di passare dietro la macchina fotografica e da presa, pubblicando il libro fotografico Sublime e realizzando alcuni video.
Autore: Michael Nyman
Titolo: La Musica Sperimentale
Editore: ShaKe
Anno di pubblicazione: 2011
Prefazione di Brian Eno
Traduzione Serena Zonca e Giancarlo Carlotti
Prezzo: 20 euro
Pagine: 224