“Togliamo il disturbo” di Paola Mastrocola (Guanda, 2011). “Siamo sicuri che serva andare a scuola? Ditemi se devo ancora insegnare certe cose o meno. Forse tutti in Italia hanno deciso che non è più utile insegnare e si sono dimenticati di dirmelo ed io continuo a fare una cosa che non interessa più nessuno e quindi è bene che smetta“. E’ lo sfogo e la provocazione lanciati da un’insegnante che, al pari di tanti altri, ama e crede nel proprio lavoro.
Paola Mastrocola torna sull’argomento, a distanza di cinque anni, quando pubblicò “La scuola raccontata al mio cane”, con un’analisi stavolta più completa e senza peli sulla lingua, allargata ai problemi più generali dello stato della cultura nel nostro paese e del futuro dei giovani, che, in definitiva, sono coloro le stanno particolarmente a cuore.
“Togliamo il disturbo” dice polemicamente nel titolo riferendosi agli insegnanti, dal momento che nel modello culturale imperante nella nostra società la cultura, la fatica di studiare ed ogni sforzo intellettuale sono considerati qualcosa di vecchio, che appartiene al passato. Nel precedente libro. cui abbiamo fatto riferimento, aveva denunciato il lento, progressivo degrado della scuola nel nostro paese, già avvertibile in un elemento apparentemente secondario come il lessico, che denotava una maggiore tolleranza verso gli studenti più pigri ed una sorta di rinuncia a selezionare, a premiare i meritevoli: quel “recuperare”, ad esempio, in luogo di “rimandare” oppure nella trasformazione di “programmi” in “progetti”, che manifestavano l’intenzione di portare ad una scuola incentrata sul marketing, sul nozionismo.
Il libro è diviso in tre parti. La prima offre un panorama pessimistico ma realistico della scuola di oggi: leve di giovani che vanno a scuola ma non imparano nulla. Sono ragazzi i cui interessi non saranno mai appagati da una scuola che non possono fare a meno di frequentare perché ritenuta indispensabile per ottenere quel “pezzo di carta” necessario per avere un futuro. Ma gli stessi giovani sanno che più che un diploma conteranno nella loro vita i legami familiari, la rete di relazioni, il proprio network di conoscenze spendibili.
Ancora più pessimista il noto scrittore e critico letterario Pietro Citati che, commentando questo libro, offre un quadro dei giovani alunni e delle loro capacità davvero deprimente. “Tutti detestano leggere o scrivere, ascoltare le lezioni. Il lessico italiano è immenso ma i ragazzi ne conoscono pochissime parole, usano termini impropri, pasticciano, confondono ortografia e punteggiatura. Non sanno pensare,non riescono a distribuire le idee e le sensazioni secondo un’architettura, elaborare i concetti e disporli nel tempo, discorrono in modo vuoto e spento, con parole senza vita, senza agilità,senza movimento“.
La seconda parte del libro è una sorta di impietosa ricostruzione storica di come sono andate le cose negli ultimi cinquanta anni, che hanno trasformato la scuola italiana da un luogo di crescita personale, ove “l’ultima delle incombenze é studiare, acquisire cultura”, in un luogo di perdita di tempo. E di tanto pessimismo sembra volersi giustificare quando afferma “dico le cose che vedo e le cose che penso a partire da quello che vedo”.
In particolare, l’autrice si sofferma sulle trasformazioni culturali di quegli anni, le scelte di indirizzo, i tanti errori ed i pochi successi nella preparazione dei giovani. E attacca coraggiosamente alcuni “mostri sacri” della cultura pedagogica italiana, bollando, ad esempio, di “populismo ipocrita” le idee di don Milani che, “disprezzando la cultura, lascia le persone come sono e penalizza i più deboli” o il “rodarismo” che, richiamandosi demagogicamente alla creatività, decreta una noia lo studio della grammatica o della letteratura, ovvero proprio di alcuni degli strumenti della creatività; scagliandosi, inoltre, contro il “pedagogismo democratico” dei ministri Luigi Berlinguer e De Mauro, basato sull’idea della scuola appiattita sulla “media minima”. Tuttavia, le critiche più feroci sono rivolte alla “didattica delle competenze” ed alla mediocre visione burocratica – mercatista adottata dalla Unione europea, riassunta nelle otto competenze chiave definite nel Trattato di Lisbona.
Un disastro quello della scuola, determinato soprattutto dalla demagogia del “successo formativo garantito” che imponendo alla scuola l’impossibile compito di rendere tutti uguali, ha ottenuto il risultato opposto, quello di creare quella che nel ’68 veniva definita la “scuola di classe”. Una tesi che trova oggi spazio presso molti pedagogisti ed esperti.”Coloro che hanno una famiglia capace di sorreggerli e trasmettere loro cultura se la cavano, gli altri finiscono per essere ignoranti e per giunta disoccupati”.
La terza parte del libro è infine, dedicata ad una possibile via di uscita, ad una proposta concreta.
“Mi è parso di aver trovato una soluzione per il futuro. Qualcosa che ha a che fare con la felicità dei giovani, la loro libertà di scelta” scrive la Mastrocola, “quello che farei se governassi il mondo della scuola”. La proposta prevede una scuola strutturata in tre direzioni ben distinte, in cui la prima fase, obbligatoria, è finalizzata alla preparazione di base, e che metta in condizione l’alunno di scegliere uno dei due indirizzi successivi, di “percepire se sia nato per studiare o per fare un lavoro manuale“.
I giovani devono poter operare una scelta del proprio futuro in piena autonomia, anche controcorrente, ignorando ogni pressione sociale e familiare (indipendentemente, cioè, dalle origini della famiglia o dalle velleità dei genitori). “Non tutti nascono soldati o sacerdoti o studiosi: c’è anche chi nasce fabbro, panettiere, meccanico o fotografo. Perché obbligare tutti a studiare? Sono stanca di avere davanti a me ragazzi infelici, che non vorrebbero fare quello che sono costretti a fare e non vorrebbero essere lì dove li costringiamo a stare. Quindi, conclude, lasciamoli liberi di non studiare, di scegliere una vita giusta per sé”. La nostra è una società basata sulla conoscenza che non è solo alta cultura ma anche know how e competenze tecniche.
Imporre una scuola di massa è pertanto un assunto troppo ideologico e non riflette l’immagine di una società veramente liberale. Quello di farsi una cultura deve essere un’aspirazione libera, un atto individuale di libertà. Una provocazione? Di certo una proposta sorprendente, che fa già molto discutere.
Paola Mastrocola nata a Torino nel 1956, insegna lettere in un liceo scientifico della sua città. Dopo la laurea ha insegnato letteratura italiana presso l’Università di Upsala in Svezia. I suoi primi scritti sono state alcune commedie per ragazzi per la “Compagnia del Teatro dell’Angolo”, due raccolte di poesie e alcuni saggi sulla letteratura italiana del ‘300 e del ‘500. Il suo esordio narrativo é avvenuto con “Le galline bianche” con il quale ha vinto il Premio Italo Calvino per l’inedito nel 1999, il Premio Selezione Campiello nel 2000 ed il Premio Rapallo per la Donna scrittrice nel 2001. Nello stesso anno con “Palline di pane” è stata finalista del Premio Strega. Le opere più recenti sono: “La felicità del galleggiante”e “Se covano i lupi” nel 2010 e “Più lontana della luna ” e “La narice del coniglio” nel 2009, tutti pubblicati dall’Editrice Guanda.
Autore: Paola Mastrocola
Titolo: Togliamo il disturbo
Editore: Guanda
Anno di pubblicazione: 2011
Prezzo: 17 euro
Pagine: 271