Tra gli autori che negli ultimi sessant’anni hanno raccontato gli orrori della Shoah, da Anna Frank a Primo Levi, da Uhlman alla successiva generazione di John Boyne, André Schwarz-Bart si era conquistato un posto d’onore già nel lontano 1959 con L’ultimo dei giusti, in cui ripercorreva la lunga storia degli ebrei nell’Europa cristiana, caratterizzata da periodi di relativa calma alternati a ondate di persecuzioni, massacri ed eccidi.
“La stella del mattino” (Guanda, 2011) è uscito postumo per interessamento della moglie dello scrittore, scomparso nel 2006 all’età di settantotto anni in seguito a un intervento al cuore. Il titolo richiama lo Shabbat ebraico, giorno di riposo inaugurato dalla comparsa della prima stella in cielo la mattina del sabato, ma fa pensare anche a una luce di ostinata speranza, alla vitalità del popolo ebraico, sempre in grado di risorgere dalle tenebre e di riprendere il suo faticoso cammino malgrado tutte le avversità, armato di saggezza e fede.
Certo, dopo aver letto il libro, attraversato da un surreale sense of humour in contrasto con la tragicità del tema, qualunque lettore dotato di un minimo di sensibilità finisce col domandarsi se le tante vittime dei campi di sterminio, cui Schwarz-Bart ha dedicato questo accorato canto funebre, non abbiano davvero tutte abbandonato la fede. Come spiegarsi, come capire, come affrontare tanta inaudita violenza senza che dal mondo si levasse alcun “no” contro quanto stava loro accadendo?
Il popolo d’Israele e dei Profeti guarda attonito e incredulo i propri carnefici. «Ebrei smemorati», grida qualcuno a un tratto, rivolgendosi a un gruppo raccolto in preghiera, «quando la pianterete con Dio? Non lo avete supplicato abbastanza negli ultimi duemila anni? E non siete già saliti sui tetti, nel secolo passato, per aspettare l’avvento del Messia su una nuvola?»…
L’esordio poetico del romanzo trae in inganno: il villaggio ottocentesco di Podhoretz, il suono incantato di un violino, la visita del profeta Elia, le tovaglie immacolate dello Shabbat, il ciabattino sempre allegro Haim che diventa rabbino… Proprio quando ci si è ambientati in questa sorta di quadro di Chagall, la saga familiare si interrompe e la musica cambia. Gli ufficiali delle SS distruggono la comunità ebraica del villaggio polacco. Solo il piccolo Haim, magico suonatore di flauto e discendente del ciabattino miracoloso, riesce a fuggire, finendo nel ghetto di Varsavia, poi in un orfanotrofio, persino, ancora vivo, in una fossa comune insieme ai fratellini più piccoli morti di tifo, per approdare infine al campo di concentramento di Auschwitz.
Auschwitz, la capitale dell’orrore, sinonimo di uno dei punti più bassi toccati dall’umanità nel corso della storia. L’atmosfera fiabesca svanisce; la coscienza del protagonista viene risucchiata in un buco nero senza Dio, senza identità, da cui solo l’amore di una donna, tanti anni dopo, riuscirà con fatica a tirarlo fuori, facendogli rivedere di nuovo il cielo del mattino. Dal sogno all’incubo, dal bene al male, dalla caduta alla resurrezione: il racconto è popolato di ossimori, primo fra tutti quello astronomico – e simbolico – della stella e del buco nero. Si precipita e ci si rialza, orgoglio di un popolo “umiliato e offeso”, come avrebbe detto Dostoevskij, ma in grado di rinascere tenendosi stretto il suo credo, il suo Dio, le sue tradizioni. I platonici parlavano di anima mundi per indicare la vitalità della natura: questa è anima populi.
Ci sono due bei passi, nel libro di Schwarz-Bart. O meglio, ce ne sono tanti degni di un posto nella memoria, ma purtroppo l’incisività è spesso attenuata dalla retorica, forse perché l’autore non ha mai messo mano all’ultima revisione (e la moglie, diciamocelo, avrebbe potuto fare di meglio). Uno è quando Haim chiede a suo padre dov’è Gerusalemme e lui risponde: “Gerusalemme è entro di te”, allora il piccolo scoppia in lacrime e l’uomo lo solleva da terra “urlando con voce estatica: «Oy gevalt, un bambino ebreo, credevo non ce ne fossero più»…”.
Altre bellissime pagine, non appesantite dalla filosofia, descrivono la fuga di Haim e di suo fratello maggiore Schlomo, che trovano rifugio in un cespuglio mentre dei soldati tedeschi armati di mitra ordinano a un gruppo di ebrei di Podhoretz, tra cui i loro genitori, di spogliarsi sull’orlo di una fossa comune. Senza capire Haim nota il suo grasso papà in affanno nel tentativo di venir fuori dalle braghe, aiutato da sua madre, entrambi rischiando punizioni peggiori della morte. Vicino a lui un sospiro: «Possibile che quell’uomo non sappia mai comportarsi come si deve?». “Eretto, saldo, con il suo lungo passo tranquillo, quello di tutta una vita, che camminasse sui tetti o tra gli uomini […] Schlomo raggiunse il gruppo dei nudi e aiutò la madre a sfilare i pantaloni e le braghe del padre. Poi, si spogliò a sua volta e si sporse verso i genitori per dire loro qualcosa”, mentre tutti e tre insieme si disponevano con una fila di altre persone tra le mitragliatrici e la fossa, “fusi, confusi, come polvere e cenere”.
André Schwarz-Bart (1928-2006) è l’autore di L’ultimo dei giusti, romanzo d’esordio con cui vinse il premio Goncourt nel 1959. La stella del mattino è uscito postumo.
Autore: André Schwarz-Bart
Titolo: La stella del mattino
Editore: Guanda
Anno di pubblicazione: 2011
Prezzo: 17,50 euro
Pagine: 252
* Diritti dell’articolo di Emanuela Cicoira