“Biancaneve“, (Todaro Editore, 2010) di Marina Visentin, è un romanzo da cui emergono, dopo la sedimentazione necessaria, degli aspetti che a una prima lettura rimangono nascosti. Il primo livello narrativo non è certo elementare, intendendo il termine come ‘non composto’, ma lo è invece dal punto di vista del lettore, e di ciò che coglie, ovvero la linearità interpretativa.
In questo livello ci viene mostrata una ragazza privata di un rapporto organico con se stessa, con il proprio corpo e limitata – circa gli altri, in quanto mondo – ad un piano relazionale estremamente scarno, sottoposto ad un’anoressia psicologica che la porta a un’articolazione emotiva monosillabica. La protagonista, giustificando se stessa di fronte a ogni senso morale e sociale, si lascia coinvolgere in delitti e reati al solo fine di migliorare o mantenere il mondo in cui vive.
Una lettura psicologica classica ci porta quindi inevitabilmente a rilevare un rapporto psicotico tra pena e colpa, che si rivela nella rimozione del delitto a livello coscienziale, e infine a un’isteria freudiana standard, che porta la protagonista – probabilmente sofferente di frigidità – a compiere lei stessa un delitto che – finalmente – è liberatorio, catartico, per quanto devastante al fine del mondo finora costruito.
Certamente questo livello è presente nell’opera, e ne rappresenta la corteccia, l’ossatura, ma vi sono altri aspetti che abbisognano di un approfondimento maggiore. La protagonista, mostra, quasi seguendo Roland Barthes, dei frammenti di un discorso amoroso, cerca di muovere dei passi sul cammino di una relazione, o almeno cerca di capire che cosa questa implichi, in termini di do ut des, di una dinamica del possesso e di una gratificazione che – lei auspica – dovrebbe giungere a completamento della relazione stessa. Eppure anche le poche persone che riescono ad avvicinarla, come Rossana, l’amica e coinquilina, che apparentemente vive una dimensione di realizzazione e coinvolgimento, rimane ugualmente vittima della sua decostruzione emotiva, che – in fondo – nell’amica è solo mascherata più attentamente, e che la porterà a impattare – fisicamente e letteralmente – la sua dialettica della seduzione con la violenza maschile distruttiva.
La protagonista, lavora foucaultianamente sull’ordine del discorso, e la parola – sia quella detta che quella taciuta – è perciò il primo elemento costitutivo di una microfisica del discorso amoroso, dove questo si trasforma tragicamente in un paradigma giudiziario. Il reato, sia l’omicidio in se quanto la complicità, sono il tema – per definizione – dove la relazione amorosa trova il suo luogo espressivo, non esistendo in tutto il romanzo una persona eticamente degna in grado di farsi carico dell’amore come onere, personale e sociale.
La protagonista esercita la dimensione amorosa/affettiva così come realizza l’autonomia e l’indipendenza del sociale: da una posizione di forza. Ogni discorso, ogni ordine del discorso, si realizza in quanto oggettuale, quando si astrae – perdendo di vista il suo oggetto – si trasforma in schema di dominio, in microfisica di un potere, di controllo.
L’amore di Biancaneve rimane inficiato nel dominio/controllo perché manca di oggetto, e di una persona reale su cui esercitarlo, fino alla catarsi barocca nel finale, dove la simulazione e la trasformazione in simulacro dell’oggetto del desiderio, producono l’oscenità e la macelleria.
Marina Visentin, conscia della pericolosità dinamica della relazione amorosa, e di quanto facilmente questa si presti a derive criminali (la storia della letteratura di genere è storia di tradimenti e di amori perduti), travalica gli aspetti sociali e psicologici di questa mediazione per reinterpretarla sul piano linguistico genealogico. Il suo è il tentativo di spezzare la macchina desiderante dell’isteria, e ne ricerca un principio di realtà nel paradigma giudiziario: ma l’ordine del discorso è troppo radicato, il discorso amoroso non riesce a emanciparsi, a diventare adulto, e si ritrova tragedia.
Il discorso amoroso è diretto quindi ineluttabilmente al controllo e al dominio, e solo la personalizzazione e l’oggettualità fenomenologica ne permetterebbero la riproposizione in un’etica e in un mondo relazionale non fatale.
Esempio trasparente di questa dinamica iperreale lo fornisce la protagonista stessa, raccontando della sua passione per la divinazione. I ching, oracolo cinese di cui Biancaneve fa uso, consumo ed abuso, sono lo specchio barocco della relazione amorosa che lei vive. L’oracolo, la divinazione, è una forma di discorso diretta al controllo e al dominio esattamente come il discorso amoroso, solamente che nella divinazione il processo di spersonalizzazione è completo. La protagonista, grazie agli esagrammi che il libro le propone, costruisce una rete, un modello interpretativo, sostitutivo del reale con cui è incapace di confrontarsi, e questo si rivela un modello talmente vincente, che lei stessa si scopre sorpresa, alla fine, del suo inevitabile fallimento oracolare. Il discorso amoroso e la narrativa divinatoria si dimostrano per Biancaneve sostanzialmente lo stesso discorso: un allucinatorio tentativo di costruire un modello per decifrare un reale che per lei non ha senso alcuno. Questo tentativo interpretativo porta in se il suo stesso destino, e si infrange come in ogni hybris degna della sua tragedia sulla sua ineluttabilità. Citando il poeta, a volte, neanche gli dei possono nulla.
Marina Visentin è nata a Novara nel 1960. Ha una laurea in filosofia ed ha lavorato come copywriter, in un’agenzia di pubblicità. E’ giornalista, traduttrice, consulente editoriale, critica cinematografica. E’ il suo primo romanzo.
Autore: Marina Visentin
Titolo: Biancaneve
Editore: Todaro
Anno di pubblicazione: 2010
Prezzo: 15 euro
Pagine: 180