“Io non mi chiamo Miriam”: lo dice all’improvviso, un’anziana signora di 85 anni, in una tranquilla cittadina svedese, circondata dalla famiglia e dagli affetti di una vita, il giorno del suo compleanno. Ha davanti il bracciale ricevuto in dono dalla sua famiglia, con il suo nome inciso. Ma il nome, dice per la prima volta nella vita, è sbagliato, non è il suo. Lei non si chiama Miriam.
Inizia così, con questa signora che nega il suo nome, con i familiari confusi e preoccupati (sarà ammattita? pensano senza avere il coraggio di ammetterlo) lo splendido romanzo Io non mi chiamo Miriam della scrittrice, drammaturga e giornalista Majgull Axelsson (Iperborea 2016). Ma Miriam non è ammattita. Miriam davvero non è il suo vero nome, e solo a 85 anni ha avuto il coraggio di dirlo. Nelle quasi 600 pagine del libro, Miriam racconterà infatti alla giovane nipote il suo segreto tenuto nascosto per lunghissimi anni: la storia di una ragazzina rom di nome Malika che sopravvisse ai campi di concentramento fingendosi ebrea, infilando i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück.
Malika è diventata Miriam, e poi ha continuato ad esserlo per paura di essere cacciata dalla Svezia e di essere odiata in quanto appartenente al popolo rom, un popolo di perseguitati e “dimenticati” dell’Olocausto, anche dopo la guerra. Miriam ha nascosto in un punto profondissimo di sé Malika, gli anni bui dei campi, la notte, il freddo, la fame. Non ha niente che le manchi, in questa Svezia tranquilla e luminosa, in questi viali pieni di alberi, di mamme coi passeggini, dove sembra non esistere pericolo o dolore. “Eppure” – scrive la Axelsson – “Miriam sogna la fame. Sono più di sessant’anni che si nasconde in questa città e non ha avuto fame neanche per un’ora, eppure ogni notte sogna le privazioni della sua giovinezza. Non ha niente a che vedere con la vita che ha vissuto da adulta o con quello che è oggi, e tuttavia non riesce a sbarazzarsi di quei sogni: s’infilano nel sonno e se ne impossessano, proiettandola a forza sessantotto anni indietro nel tempo o anche di più e costringendola a chinare la testa e scappare, abbassare lo sguardo e curvare la schiena, rubare un tozzo di pane a chi non ha la forza di mangiare, cercare di imboccare un fratellino che non riesce più nemmeno a deglutire”.
Il romanzo di Majgull Axelsson è tributo al dolore di un popolo, che, come nella storia di Miriam, viene raramente citato quando si parla di Olocausto, pur avendo pagato un prezzo altissimo nei lager nazisti. Ed è un percorso a ritroso, doloroso, a tratti straziante – come nelle pagine sulla vita nei lager, e sul fratellino di Malika – ma necessario, sui ricordi e la memoria, collettiva e individuale, come mezzo indispensabile per superare finalmente la paura e ritrovare la propria identità.
Majgull Axelsson (1947), scrittrice, drammaturga e giornalista, è una delle più apprezzate autrici svedesi, tradotta in ventitré lingue e premiata con l’ambito Augustpriset. Dopo essersi affermata con inchieste su problematiche sociali, come la prostituzione infantile nel Terzo mondo e la povertà in Svezia, ha esordito con successo nella narrativa. È cresciuta a Nässjö, dove si svolge parte della vicenda narrata in Io non mi chiamo Miriam.
Autore: Majgull Axelsson
Titolo: Io non mi chiamo Miriam
Editore: Iperborea
Anno di pubblicazione: 2016
Prezzo: 19,50 euro
Pagine: 576