Scrittore – come usa dire – appartato, il bolzanese Alessandro Banda, insegnante, ha dedicato alla scuola diversi libri, e anche in questo ultimo Io, Pablo e le cacciatrici d’eredità (Gaffi Editore), la scuola ritorna come sfondo e motivo non trascurabile della sua scrittura.
In realtà, il Pablo del titolo, protagonista non isolato del romanzo, alla scuola si è sempre mostrato refrattario (nonostante sia figlio di insegnanti), ma dopo una vita da fancazzista, impedito a tutto, allo studio come al lavoro, a un certo punto deve rassegnarsi all’idea di lavorare per vivere – la vergogna del padre sarà duplice, visto che sarà costretto a raccomandarlo addirittura a un prete, lui che è sempre stato un feroce anticlericale di quelli che vorremmo a ogni pianerottolo dei nostri palazzi, e il massimo che può ottenere è un’occupazione da bidello (il che consentirà alla voce narrante, suo fratello, di allegare inserti scolastici oscillanti fra il comico e il satirico, a volte efficaci altre meno).
Riottoso a qualsiasi attività, il bizzarro eroe, tranne che alla frequentazione assidua delle donne. Pablo infatti è un erotomane con idiosincrasie e predilezioni marcate: le tedesche soprattutto. Per anni mostra un’attitudine al rimorchio di “classiche, floride, bionde teutoniche”. Più avanti, non si fa mancare niente, nemmeno viaggi improvvisati verso longitudini più orientali a caccia di ragazze dell’est. Nonché due rapporti ‘seri’, il primo, un matrimonio fallimentare, il secondo davvero fatale, perché Soppressa, indigena a tutti gli effetti – questo il guaio? – l’impalmata cacciatrice di eredità, tirchia e dedita al denaro come a una vera passione, per raggiungere il suo cinico scopo sarà capace di una cattiveria quasi epica.
Il povero Pablo, capita l’antifona, cercherà di sperperare il suo stipendio ingozzandosi come un maiale nei ristoranti più cari del nord (scelti apposta per i loro prezzi esosi) – ma il finale è una trappola micidiale la cui scoperta lasciamo al lettore. Qui si palesa il meglio dello scrittore, il suo umorismo capace di uno sguardo in apparenza capzioso ma assai lucido su un mondo fatto di “avidità, grettezza, piccineria d’animo” etc. Banda ostenta una visione assai caustica della vita che per quel poco che abbiamo letto di lui ci appare un’apprezzabile cifra peculiare. Tuttavia, come se non vi fosse sufficiente distanza fra l’io narrante e l’autore empirico, lo sberleffo poetico non di rado lascia spazio a toni da pamphlet – il che in un romanzo non aiuta a sfuggire le “insidie del luogo comune”; così la derisione alternata a un’ironia più blasé suonano troppo scoperte, didascaliche, e la comunicabilità dell’indignazione sottrae forza all’espressività che aspettiamo da un romanzo; altrettanto valga per certe immagini convenzionali o l’abuso di aggettivi, spesso in sequenze di quattro termini, che indeboliscono il dettato invece di rafforzarlo.
Avrebbe detto Karl Kraus che dire “che un ministro è un incapace non basta a fare di qualcuno uno scrittore” – non è un appunto che valga per Banda, che scrittore lo è. Solo, leggiamo in un’intervista che il romanzo avrebbe avuto una sola stesura – ecco, una riscrittura più severa invece avrebbe potuto evitare le cadute stilistiche di cui sopra, e un editing più attento gli sarebbe servito a fare di Io, Pablo e le cacciatrici d’eredità un piccolo romanzo prezioso, di quelle narrazioni sbilenche ma acuminate di cui lo stesso Banda è capace e sentiamo il bisogno come aria che spazzi via il kitsch così gradito all’ambiente letterario italiano che nemmeno se ne accorge.
Autore: Alessandro Banda,
Titolo: Io, Pablo e le cacciatrici d’eredità,
Editore: Gaffi
Anno di pubblicazione: 2016
Pagine: 144
Prezzo: 15 euro