Come ricorda Jan Brokken nel bel libro Anime baltiche (Iperborea) “in ogni estone cova sempre un certo odio antirusso”. Non so se il sentimento albergasse anche nell’animo di Jaan Kross (1920-2007), autore del lungo romanzo Il pazzo dello zar, uscito da poco per lo stesso editore e tradotto da Arnaldo Alberti: ma certo, una qualche ragionata e motivata ostilità come quella menzionata il suo racconto la sottende.
Perché narra di un aristocratico della Livonia di primo Ottocento, il barone Timo von Bock, amico dello zar, suo colonnello, che si sentiva assai fuori ruolo in quello che gli aveva assegnato la storia e il suo destino d famiglia, ma fu abbastanza temerario per provare a cambiare la propria e quella generale. L’intreccio narrativo architettato dallo scrittore estone mostra come si tenessero insieme due piani: per una ferrea volontà del barone di fare tutt’uno di vita pubblica e privata, rivoluzionando l’una e l’altra in una totalità dell’esperienza di rara coerenza. Timo infatti rifiuta il suo mondo, sposa una contadina in luogo della pari casta che tutti si aspettano e denuncia apertamente, in maniera persino aggressiva, il potere oppressivo dell’aristocrazia zarista.
Kross scrisse il libro nel 1978 e Goffredo Fofi nella postfazione lo descrive come l’ultimo frutto importante del romanzo storico iniziato quasi due secoli prima – ossia più o meno negli stessi anni in cui è ambientata la vicenda. Come al tempo lo zar e l’aristocrazia a esso contigua schiacciava le pretese di una nuova borghesia inquieta e liberale, nonché l’aspirazione sacrosanta a una certa autonomia nazionale, così l’Urss avrebbe tenuto sotto le sue ferree maglie protettive il paese nativo di Kross (peraltro, lo scrittore fu prigioniero prima dei nazisti poi degli stalinisti).
Leggiamo i fatti attraverso il diario del perplesso cognato del barone. Racconto e riflessioni alternano cautela e insolenza, scettico com’è, l’uomo, verso la fortuna che gli ha messo sulla sua strada il bizzarro aristocratico che ha deciso di prenderlo con sé assieme alla sorella; e di farli studiare, sottraendoli a un destino di servitù contadina. Il narratore dopo tanti anni non si capacita dell’audacia (folle?) che ha condotto Timo a quello scontro (ci sono momenti in cui sembra quasi Sancho Panza alle prese coll’immaginifico cavaliere). E così determinare una certa insicurezza sociale, identitaria anche per lui, che vede la Storia rovesciarglisi addosso con una potenza inaudita. Non casualmente, egli dubita dell’utilità del suo stesso diario; si concede diverse digressioni, come nel tentativo improbabile di costruire un senso all’intera vicenda: la propria, quella del ‘pazzo’ che l’ha provocata, quella generale. A volte la tira un po’ per le lunghe, si sofferma sulle sue vicende amorose, nota quasi con raccapriccio gli scambi affettuosi in pubblico fra Timo e sua sorella. Fino alla torsione drammatica da cui principia la fabula: laddove ci mette al corrente dell’esplosiva missiva indirizzata da Timo molti anni prima allo zar (che era stato suo amico). Prima nota l’aspetto formalmente irriguardoso, poi ci presenta l’allegato, l’oggetto dello scandalo: una bomba di parole e intenzioni tumultuose che Timo getta nel cuore di un potere secolare.
Accusa i Romanov non solo di non aprirsi ai cambiamenti che stanno scuotendo le vecchie fondamenta del mondo, ma di esercitare ancora tirannia e schiavitù, di trattare il popolo come bestiame, di circondarsi di adulatori (“Quanto più un ministro è stupido e furfante, tanto più può essere certo della benevolenza del monarca”). E via di seguito. L’ingenuità che gli ha fatto di credere di avocare a sé una tale franchezza gli costerà carissimo. Lo isoleranno (come ‘pazzo’ appunto) e solo dopo otto anni, col passaggio da Alessandro I a Nicola I, lo chiuderanno nella sua proprietà circondato da spie che ne controlleranno qualsiasi movimento.
Il romanzo attraversa così sentimenti privati e un microcosmo assai esemplare di stratificazioni sociali, un pezzo di storia europea a noi poco noto e un ritratto alfieriano non privo di fascino.
Jaan Kross (1920-2007), poeta e romanziere, è il più conosciuto e acclamato scrittore estone, nominato più volte per il Premio Nobel. Il suo romanzo Il pazzo dello zar è stato tradotto in venti lingue. La maggior parte delle sue opere riflettono la travagliata storia dell’Estonia nel XX secolo, contesa tra la Germania e la Russia. Kross stesso, da giovane intellettuale, ha conosciuto prima le prigioni naziste e poi i gulag siberiani.
Autore: Jan Kross
Titolo: Il pazzo dello zar
Editore: Iperborea
Traduzione: Arnaldo Alberti
Anno di pubblicazione: 2016
Pag: 433
Prezzo: 19 euro