Marco passa le giornate a scrivere articoli di giornale con la fedele compagnia del gatto Guitar, orfano da anni di un nuovo romanzo che non vuole uscire e di una sorella morta in un incidente stradale.
Marco ciondola in una Bologna annoiata come lui, schivando l’editore e il cognato in perenne lutto… a smuoverlo arriva la telefonata del notaio Boni: c’è un’eredità, una casa per la precisione, che Marco ha ricevuto dal pittore E.E. Newman.
Ci sarebbe da essere felici, se non fosse che Marco non ha mai incontrato Newman.
La casa è una di quelle belle costruzioni di campagna che si trovano nel ravennate, circondata da siepi e con un cancello arrugginito; dentro la casa, oltre il parco, le donne dipinte da Newman guardano Marco da tutte le pareti. Qual è il legame che li unisce? È solo un vecchio fan squinternato?
Marco esplora la casa, e la vita del pittore, in compagnia della nuova fiamma Beatrice: dalle tele le donne iniziano presto a prendere vita… anche la sorella Anna andrà a prendere posto tra le composizioni di Newman, in una chiusura del cerchio dove Marco può scrivere finalmente il suo finale perfetto, e dove il soprannaturale lascia il posto alle nostre oscurità, in perfetto stile Poe.
L’ipotetica assenza delle ombre è un giallo dalle tinte gotiche che ha dalla sua un’atmosfera classica, quella della casa (stregata oppure no) che acquista più spessore dall’ambientazione nostrana (diciamolo… tutti questi gialli, noir, svedesi, americani, inglesi ci hanno un po’ fraccato le scatole).
Di contro ha un protagonista che fa il peggior mestiere possibile in un romanzo, lo scrittore. In un romanzo gli scrittori, soprattutto se letteralmente innamorati della ragazza della porta accanto (è una sottotrama necessaria? No.), lasciano sempre un retrogusto meta-letterario (l’autore ci sta parlando di sé?), e soprattutto contribuiscono a propagare il pericoloso mito romantico dello scrittore-che-non-scrive-ma-che-riesce-a-vivere-in-qualche-modo.
Superato il fossato di questo pericoloso luogo comune L’ipotetica assenza delle ombre si fa leggere con piacere e il colpo di scena finale, molto alla Poe, non dispiace affatto.
Consigliato a chi è alla ricerca di un giallo nostrano senza sangue ma con molti misteri.
Quando il mio editore mi diceva che avevo un’immaginazione forte e quasi pericolosa, avrei dovuto ridere e non l’ho fatto. Sono rimasto serio perché era tutto vero.
Mentre parlava (ma questo non gliel’ho mai detto), io gli vedevo il cervello, i neuroni che conversavano, le vene, il sangue che circolava e irrorava il cuore. Riuscivo perfino a visualizzare l’ossigeno che gli gonfiava i polmoni anneriti da anni di abuso di nicotina e qualche altra diavoleria.
Mi sembrava davvero di scandagliare il suo corpo, di visitare ogni angolo all’interno. Questi viaggi mi aiutavano a sopportare le sue parole e a reggere quello sguardo gelido, a volte sprezzante.
In quel momento, invece, la mia vista speciale stava sorvolando la città per raggiungere Ravenna, dove stava il notaio che mi aveva contattato.
Massimo Padua è nato a Ravenna nel 1972. Ha pubblicato i romanzi La luce blu delle margherite (Fernandel, 2005 – Premio Opera Prima Città di Ravenna), L’eco delle conchiglie di vetro (Bacchilega, 2008 – Premio Tammorra d’argento), L’ipotetica assenza delle ombre (Voras, 2009 – Premio Perelà), A un passo dalla luna piena (Fernandel, 2014), e la raccolta di racconti Si sta facendo buio (Voras, 2009). È presente in diverse antologie, tra le quali Racconti nella rete (Nottetempo, 2008) e Io mi ricordo (Einaudi, 2009).