Finiranno anche male; essendo una storia per bambini, il libro ha la sua morale, e i due terribili furfanti che la vita non la godono se non complicando quella altrui, faranno una brutta fine, secondo dettami di una pedagogia immaginabilissima: ma che “adorabili canaglie” – si sarebbe detto una volta – i nostri Max und Moritz. E che bella edizione ripropone Castelvecchi (da una Bur di molti anni fa) di questo splendido classico del 1865, fra i primi veri esempi di fumetto, firmato da Wilhelm Busch, disegnatore e umorista spietato, peraltro già addestratosi in precedenza sul tema del pischello incarognito, ladro impunito e recidivo. Libro imperdibile anche per chi bambini non ne ha, perché qui lo leggiamo nella storica traduzione di Giorgio Caproni – del quale peraltro non si capisce l’odierna dimenticanza. I due bambini selvatici nella versione del grande poeta toscano diventano Pippo e Peppo, ed è un piacere aggiunto agli altri quello di registrare l’agilità della rima che segna il passo di una lettura dal ritmo amabilissimo (che a un bambino oggi sfugga la comprensione di qualche passaggio è del tutto secondario). Il grottesco senza scampo del disegno e delle storie, i personaggi – adulti compresi – risolti nei loro elementi vitali essenziali, le gag veloci e sinistre sono precedute da una dottissima introduzione di Claudio Magris – per spostare la ricezione del racconto da tutt’altra parte, secondo gusto e desideri del lettore.
Marioli, ingordi e assai crudeli Pippo e Peppo, non possono fare a meno di tirare brutti scherzi a chiunque: il che li rende irresistibili, perfidi nell’azione quanto cialtroni nelle intenzioni. Wilhelm Busch lavora di satira e humour nero, e in questi decenni di sdolcinatezze disgustose, di gatti e gabbianelle innamorate, di vittimismo ontologico e perciò stesso ipocritamente autoritario, risulta preferibile persino la morale esplicitamente gerarchica di una pedagogia vetusta ma coerente – ma questo peraltro è solo il finale. E dubitiamo assai che Busch scrivesse e disegnasse solo per il finale, per “la morale della storia”: c’è nell’efferatezza dei suoi enfants terribles una jouissance, uno scarto pulsionale così all’erta che ci dice qualcosa su di noi, sull’animale-uomo molto di più delle edulcorate storielle edificanti che una pedagogia “progressista” in tutto tranne che nell’intelligenza ci ammorba da qualche decennio a questa parte. E la lezione, se proprio siamo in cerca di pedagogia, è doppia, una esterna, l’altra interna al testo. La prima è che qualsiasi cosa è meglio del miele velenoso che crede di escludere il male dal mondo (compreso darle e prenderle senza troppo frignare), la seconda è che la sola cosa oscena quando parliamo di finzione (un fumetto o un film, poco importa) è paradossalmente lasciarne fuori qualcuna per stolido moralismo: che si tratti di adulti o di bambini, di animali maltrattati o vecchietti tormentati. Che anche questa possa trasformarsi in “una sottile e ingegnosa retorica” del male ha ragione Magris di farlo notare: purché si distingua l’arte dalla vita. E si consenta alla prima ciò che cerchiamo di combattere nella seconda.
Autore Wilhelm Busch
Titolo Max e Moritz
Editore Castelvecchi
Traduzione Giorgio Caproni
Anno 2015
Pag 62