L’idea base del volume Cinema senza fine – Un viaggio cinefilo attraverso 25 film (Mimesis) è che il cinema non sia niente affatto morto. E che misurarne la vitalità solo attraverso la frequentazione delle sale – in effetti, sempre meno cospicua – costituisca un approccio sbagliato. La fruibilità facilitata dalla rete ad avviso dei curatori del volume – segnatamente Roy Menarini – avrebbe piuttosto aiutato la sua sopravvivenza e consentito persino di intraprendere nuove strade.
Per rendere ragione di questa idea e di nuova scommessa sulla buona salute dell’arte cinematografica sono stati scelti 25 film degli ultimi anni, molto diversi fra loro se non per l’intento consapevole di fare i conti con il linguaggio e le sue possibilità di rinnovamento. Sparsi fra i vari continenti Africa esclusa (e sarebbe interessante capire perché), e analizzati da altrettanti critici, i film interessati portano per lo più le firme di registi da un pezzo canonizzati dalla storia del cinema (Scorsese, qui per Hugo Cabret; Herzog con Grizzly Man, il Film Socialisme di Godard, Ritorno a casa di De Oliveira, l’Inland Empire di Lynch, The tree of life di Mallick, il delilliano Cosmopolis di Cronenberg etc – si potrebbe constatare che nessuno di questi titoli sembra il migliore dei rispettivi autori…) Ma anche di nomi meno conosciuti a un pubblico vasto come Bela Tarr (Il cavallo di Torino), Elia Sulieman (Il tempo che ci rimane) o il filippino Lav Diaz. I cui film, scrive Giulio Bursi, “hanno pochi precedenti nella storia del cinema”. Diaz (Death in the land of encantos, 2007) lavora sulla dismisura “in barba a qualsiasi pratica mercantile”, con le conseguenti ovvie difficoltà di distribuzione, e per “raccontare” il crollo tragico del suo paese utilizza tempi dilatati, singole inquadrature di decine di minuti che dicono lo “sfacelo, lo scempio, la violenza, la furia” perpetrate a danno della natura da un popolo quasi dimentico di sé.
Quanto all’Italia, Marcello Walter Bruno lavora all’ipotesi (così la definisce) di un parallelo fra Mussolini e Berlusconi nel film Vincere di Marco Bellocchio; parallelo giocato su elementi che diremmo gaddiani (l’ossessione fallica di due boss priapeschi), sul dominio della propaganda, i nomi populistici ( II Popolo d’Italia del giornalista in attesa di divinizzarsi in Dux e Forza Italia), l’estetizzazione della politica etc. Molto interessante poi la nota su Quentin Tarantino. Pietro Bianchi, l’estensore, ha buon gioco nel dimostrare come il geniale regista di A prova di morte abbia saputo freudianamente acuire lo sguardo sulla superficie dello small talk, dei dialoghi apparentemente de-centrati rispetto a un nucleo narrativo che difatti non esiste perché è lì, in quel singolo frammento, in quei margini, che si versano e spariscono i materiali che, in mancanza di meglio, continuiamo a chiamare inconscio. Tarantino è col tempo andato oltre i confessati debiti con la letteratura (da sempre in grado di montare storie indietro e in avanti) per liberare racconti non lineari, sbilanciati, esplosi, a volte in maniera davvero felice. Ce n’è anche per i fratelli Dardenne, per gli iraniani Panahi e Kiarostami, per Pedro Costa, per il grande Sokurov de L’arca Russa etc. Un volume di indubbio interesse – nonostante la postfazione di Enrico Ghezzi, che non rinuncia al vezzo di bruciare il suo talento in una prosa illeggibile.
A cura di: Roy Menarini
Titolo: Cinema senza fine
Editore: Mimesis
Anno di pubblicazione: 2014
Pagine: 235
Prezzo: 20 euro