Nel Diario Americano, ora di nuovo in libreria con gli Editori Riuniti, il malinconico ma sempre fiducioso Charles Dickens non riesce con tutte le cautele, le attenuanti, la bonomia di fondo a nascondere una certa amarezza, una poco pacificata delusione rispetto agli entusiasmi di partenza – il caso di dire.
Il viaggio nel continente nordamericano intrapreso alla soglia dei trent’anni lo mette sull’avviso da subito: dalla constatazione che l’alloggio per sé, per la moglie e la sua cameriera non è esattamente quello promesso dal piroscafo RMS Britania. Se ne fa presto una ragione, mentre una volta giunto a Boston, prima tappa del suo viaggio – passerà poi per New York, Washington, il Sud, il Mississippi etc – inizia a pagare lo scotto della sua fama. Lo scrittore è già noto (siamo nel 1842) e, neanche una star odierna del cinema, si lamenta che non lo lasciano in pace.
Non tutte le cene e gli appuntamenti mondani in suo onore lo disturbano, ma la diagnosi è impietosa: gli americani, a prescindere dal tributo – in certe forme non richiesto – che credono di dovere a una star come lui, sono piuttosto invadenti, un po’ troppo naif evidentemente. Dickens scrive anche che “la più squisita cortesia regna in tutti gli uffici pubblici” e che quello americano è un “popolo affettuosissimo”. E di Boston il grande romanziere nota che “nessuno straniero può restare insensibile alla bellezza di questa città. La maggior parte delle case sono ampie ed eleganti, i negozi sono eccellenti, gli edifici pubblici armoniosi.” Ma la raffinatezza di Boston è più l’eccezione che la norma. Tanto che non gli resta che annotare: “essa (l’America) è ben lontana dall’essere il modello a cui il resto del mondo deve ispirarsi”.
Masticare tabacco e poi sputacchiarlo in giro, come usa senza vergogna a Washington, al delicato inventore di Oliver Twist non pare una bella abitudine, per esempio. Dickens scopre nell’arco dei sei mesi di tour di dover fare i conti con i frutti perversi del suo lavoro e della sua fama: in giro per gli States che si vendevano copie dei suoi libri senza rispetto delle leggi sul diritto d’autore. Ma non possiamo imputare la delusione complessiva a questioni personali – sia pure legittime. Sperava di trovare una conferma alle illusioni di un mondo nuovo, migliore di quello europeo, ma non la trova. La giustizia vi si palesa tutt’altro che esemplare; perlopiù la cultura americana si dimostra assai rozza rispetto a quella europea che pure aveva tentato di lasciarsi alle spalle. La persistenza dello schiavismo lo dice a lettere chiare e drammatiche. Le condizioni delle carceri, idem. La latitanza di condizioni sanitarie dignitose, uguale.
Lo humour perlopiù sorregge lo scrittore e ne fa un campione di discrezione ma l’evidenza violenta di certe storture ha buon gioco nell’avere la meglio. La “fedele registrazione delle impressioni” ricevute durante il viaggio lascerà strascichi di malevolenza; a molti americani – benché “coraggiosi, ospitali, cordiali” – il racconto non sarebbe piaciuto. Le “eccellenti scuole e gli ospedali” di New York, o “l’ammirevole servizio di vigili del fuoco” non cancellano la memoria degli “orridi maiali” che attraversano Brodway, né il culto ambiguo dell’abilità, quale che sia, sì da rendere gli americani compiaciuti anche nell’arte della truffa (li chiamano affari).
Di Charles Dickens (1812-1870) ricordiamo Circolo Pickwick, Oliver Twist, David Copperfield, Tempi difficili, Grandi speranze e il Canto di Natale
Autore Charles Dickens
Titolo: Diario Americano
Editore: Editori Riuniti
Traduzione: Gianfranco Corsini e Gianni Miniati
Anno di pubblicazione: 2013
Pagine: 320
Prezzo: 20 euro