Klaus Mann, figlio del più celebre Thomas, ne Il vulcano uscito nel 1939 e riproposto recentemente dalla Gallucci editore, racconta il forzato allontanamento dalla Germania hitleriana di un gruppo di artisti e filantropi miliardari all’indomani dell’incendio del Reichstag.
L’esilio è certo una condizione di disagio materiale e morale ma è soprattutto uno stato d’animo che può essere compreso e descritto solo da chi lo ha vissuto sulla propria pelle: senza il trauma delle guerre civili e il conseguente sradicamento imposto alle vittime degli espropri di terre Virgilio non avrebbe composto le Bucoliche ( 42-39 a. C), uno dei testi fondanti della cultura letteraria europea. L’esperienza di un’integrazione comunque mancata segna del resto l’intera drammatica biografia dello scrittore monacense, morto suicida nel 1949 a Cannes: è significativo infatti che fra i tanti personaggi esemplari rievocati dal libro l’autore si celi dietro il velleitario scrittore omosessuale Martin Korella, votato all’autodistruzione, isolato fra gli stessi esuli e sordo alla loro solidarietà.
Ma “Il vulcano” in realtà è autobiografico non perché l’autore rappresenti se stesso quanto piuttosto perché vi traspare l’ansia di non lasciare nell’ombra nessun dettaglio, nessun volto, nessun gesto, nessuna riflessione teorica di un’ esperienza incancellabile: vi emerge il ritratto, commosso, di un’umanità raminga, ferita, emarginata nel cuore di città affascinanti, Zurigo o New York, dove si ha l’impressione di incontrare solo gente felice. Una folla di condannati che offre il triste spettacolo di sé ai tavolini degli eleganti caffè parigini: il gioco a scacchi solitario di un conte ungherese, la triste esibizione di una cabarettista con i capelli verdi, il penoso delirio una venditrice ambulante di dentifrici.
Apparizioni fugaci o protagonisti, a nessuno la ferocia dello Storia consente l’idillio della poesia e dell’eros: se i manganelli alla lunga hanno potere sull’anima, sia che si sia soldati della resistenza, patetici o entusiasti, sia che si sia troppo fragili per restare in vita, sia che si sopravviva aprendo un ristorante, non vi sono alternative all’essere martire crudeli di se stessi o degli altri.
La sofferenza rende morale ogni scelta: non è il giudizio a dare impulso alla struggente rievocazione memoriale, bensì la pietà e la speranza di non essere dimenticati. Dio esige dall’uomo di portare la croce e di tramandare il ricordo del male subito: questo il senso dell’investitura poetica conferita dall’angelo dei senzapatria al giovane amante di Martin, Kikijou, intenzionato a completarne l’opera. A morire in una squallida camera d’albergo o trucidati dalla plebaglia inferocita in una latrina viennese è l’anima nobile dell’Europa, la stessa che Marion, attrice di talento, porta in giro per i teatri, recitando i testi dei grandi poeti del passato, nell’attesa, forse vana, che si realizzano spettrali connessioni e che la Storia sia maestra di vita.
Klaus Mann nacque nel 1906 a Monaco di Baviera, primo figlio maschio dello scrittore Thomas Mann. Attivista politico e assiduo frequentatore dell’ambiente intellettuale ai tempi di Weimar, nel 1933 scelse l’esilio, in aperta opposizione con il nuovo regime. A questi anni risale anche la decisione di dedicarsi a tempo pieno all’attività letteraria, che culminò con opere importanti come Sinfonia patetica (1935), Mephisto (1936) e Il vulcano (1939), incentrato sulla condizione degli esuli tedeschi durante il nazismo. La sua vita intensa e tormentata, segnata dalla solitaria condizione di apolide, dall’abuso di droghe e da una dichiarata omosessualità, si concluse tragicamente a Cannes, dove morì suicida nel 1949.
Autore: Klaus Mann
Titolo: Il vulcano
Editore: Gallucci editore
Anno di pubblicazione: 2012
Traduzione: Enrico Ganni
Pagine: 687
Prezzo: 19 euro
*articolo di Augusto Leone