Intervista a Gordiano Lupi: la parola all’editore

lupi-intervistaQualche giorno fa mi sono trovato limacciosamente bloccato in una di quelle conversazioni sterili sul perché il mondo editoriale italiano continui a girare su se stesso, pubblicando “troppo e brutto“, non curandosi poi neanche di sostenere ciò che pubblica, riuscendo così a deprimere quella rarissima e taciturna specie di essere umani che sono i lettori forti (ossia chi legge almeno un libro al mese).

Intorno a me c’era un editore che rivendicava il suo ruolo d’innovatore alla ricerca di talenti, salvo esprimermi il suo disappunto perché questi innovatori non venivano compresi dai lettori, che non acquistavano duemila copie del mirabile atto di ingegno. Prima che potessi fingere un impegno improrogabile che mi costringeva a smettere di tamburellare con il mio ginocchio destro sotto il tavolo, un giornalista-blogger-critico letterario prendeva la parola, affermando che sì, l’editor-innovatore aveva ragione, ma ciò dipendeva anche dal fatto che ormai tutto quello che doveva essere inventato era stato scritto al meglio da altri e quindi era inutile cercare talenti nei romanzieri, mentre era necessario focalizzarsi sui saggisti, su chi parla della realtà senza doversi inventare nulla, insomma su qualcuno come lui. A quel punto il giornalista-blogger-critico, sfilava da un borsello a tracolla marrone un plico e lo porgeva all’editore-innovatore che ripiegava le mani sotto le ascelle pur di non trovarsi tra i piedi l’ennesimo manoscritto da non leggere.

A salvarlo interveniva un editor che sentenziava che la saggistica in Italia era nata morta e che per aumentare il segmento dei lettori bisognava creare storie complesse con un linguaggio semplice. Insomma qualcosa che non ricordasse al lettore la sua vita, raccontata come se si stesse facendo la lista della spesa, qualcosa come l’ultima opera su cui aveva messo le mani, che davvero sembrava scritta da un dodicenne che non ha mai letto un libro in vita sua. All’entusiasmo dell’editor ho risposto alzandomi in piedi di colpo, mentre gli occhi dei miei tre compagni di conversazione, si sono accalcati su di me per un attimo, fissandomi, per poi riprendere a parlottare, sicuro ognuno della propria visione del mondo, dichiarandosi infine tutti e tre speranzosi nella frontiera dell’e-book, che di anno in anno raddoppia, anzi triplica la propria quota di mercato.

Mentre tornavo mestamente a casa pensavo: E allora? Perché continuare con tutto questo? Se le persone non sono interessate a leggere perché costringerle? E perché aprire nuove case editrici e sfornare nuovi autori, se chi potrebbe aiutarli (editori, editor, giornalisti) è già convinto del loro fallimento?

Giriamo subito questa domanda a Giordano, pardon Gordiano Lupi, scrittore, giornalista e direttore editoriale delle Edizioni Il Foglio, piccola ma interessante casa editrice di Piombino, con cui abbiamo la possibilità di scambiare qualche domanda sincera cui far fronte con delle risposte altrettanto sincere.

Le discussioni che si scatenano nel mondo dell’editoria, a ogni pubblicazione dei dati di vendita, sono ahimè molto simili alla scena sopra descritta. Allora perché continuare? Che siano in pochi a leggere e magari coccoliamoceli questi pochi, creando un filtro serio a ciò che viene pubblicato, promosso, criticato e messo in discussione. Tutta questa diversità è ancora un valore?
“La diversità è sempre un valore. Un editore non vale l’altro. Nessuno fa cose identiche, a parte gli editori a pagamento che fanno tutti la stessa cosa, non dico quale altrimenti mi querelano. In ogni caso sono utili anche loro. Ci liberano da tanta gente che merita la vanity press. Sai quanti ne conosco, pure del mio paese! Piombino conta 36.000 abitanti, almeno 300 sono scrittori e poeti. Quanto a me, vedi che ho fatto davvero poco in vita mia? Non sono ancora riuscito a far capire alla gente che mi chiamo Gordiano. Tutti mi chiamano Giordano, come il centravanti della Lazio di qualche anno fa. Certo, lui ha fatto molto più di me. Almeno ha segnato un sacco di goal…”

Il sistema televisivo, su cui tutto e tutti sembrano fondarsi, ci insegna che ciò che importa è l’audience. Anche per i libri vale ormai la stessa regola aurea? Se non interessa più che un libro venga letto, ma basta che sia comprato, allora perché non puntare solo sul packaging? E in molti non lo fanno già? Lei su cosa punta quando sceglie un testo? Quanto conta ancora ciò che ha da dire l’autore?
“Vale per gli editori commerciali. A noi che cosa importa? Il Foglio Letterario è un’associazione culturale non profit. Vendere è importante per avere denaro da reinvestire nell’oggetto sociale: produzione di libri. Questo fa sì che non dobbiamo vendere l’anima al diavolo per pubblicare le sfumature di bianco, rosso e verdone. Io quando scelgo un testo punto sul gusto personale, su quello che mi fa emozionare, sui libri (come Il vuoto intorno di Claudio Volpe) che vorrei aver scritto e che mi piacerebbe trovare in libreria. Conta molto quello che ha da dire l’autore. Per me, chiaro. Non conta per Rizzoli, Mondadori, Feltrinelli, Einaudi… per loro conta il marketing. Hai notato che in questo periodo storico va di moda pubblicare ragazze di venti – venticinque anni di bella presenza? A parte i soliti politici, gli editor delle altre case editrici, i giornalisti che recensiscono libri e compagnia cantante.”

La specializzazione o l’editoria generalista? Quale di queste scelte paga di più oggi e pagherà di più in futuro e quale cerca di applicare con le Edizioni il Foglio?
“Paga di più la specializzazione. Per esempio da noi va molto bene la collana CINEMA. Ma non me la sento di abbandonare Narrativa e Poesia, anche se dobbiamo scegliere bene e concentrarci soprattutto su autori giovani. Pure qui non per marketing, ma per il nostro statuto.”

Lei pensa che si stia arrivando nell’editoria a una bolla come quella che toccò il settore delle telecomunicazioni in Italia alla fine degli anni novanta, facendo piazza pulita di molte realtà di scarsa qualità, ma anche di molti innovatori reali? E se sì, pensa che la sua casa editrice si salverà? E le altre piccole realtà?
“Noi ci salveremo ed è dal 1999 che ci salviamo, facendo cose di qualità, cose in cui crediamo e soprattutto non perseguendo il profitto ma il pareggio di bilancio. Io credo che le cose serie nel campo librario si possano fare soltanto da dilettanti. Certo, dobbiamo essere dilettanti molto professionali.”

Se non fosse il direttore editoriale delle Edizioni Il Foglio, di quale casa editrice vorrebbe esserlo e perché?
“Un tempo avrei detto Stampa Alternativa, adesso mi pare che pure loro si siano normalizzati e mi sembra che Baraghini abbia perso lo smalto dei bei tempi. Pure io, forse. Il tempo passa e anche fare il bastiancontrario pesa. Non vorrei essere nient’altro di quel che sono, come diceva Braccio di Ferro, un grande personaggio letterario a fumetti inventato dal buon Segar. Questo mi basta. Anordest Edizioni mi piace parecchio, ma per loro dirigo già due collane (Narrativa italiana e Narrativa Latinoamericana)…”

Molti piccoli (e spesso anche medi) editori sognano di trovarsi per le mani l’autore esordiente che “esploda” e “venda” quelle migliaia di copie, salvando così la casa editrice da bilanci sempre più rossi e creditori sempre più insistenti. Quali sono secondo lei (se esistono) le caratteristiche di un autore “esplosivo”. C’è un genere, uno stile o un’idea su cui un autore esordiente dovrebbe puntare oggi per catturare l’interesse di un direttore editoriale?
“Sono idee balorde. Io ho scoperto alcuni autori con tali caratteristiche (Lorenza Ghinelli, Claudio Volpe, Wilson Saba), alcuni li ho portati allo Strega, ma non hanno mai venduto più di 800 – 1000 copie con la mia casa editrice. Il fenomeno editoriale lo costruisce la capillare comunicazione pubblicitaria che solo la grande casa editrice può avere. Inutile sognare di trovare l’autore da 5.000 copie con una casa editrice di provincia, distribuita in maniera artigianale e basata sulla buona volontà! Guarda il caso di Lorenza Ghinelli e Il divoratore. Perché da noi lo compravano i soliti affezionati e con Newton & Compton ha venduto in tutto il mondo? Come sempre è il conto in banca che fa la differenza.”

E ora parliamo di manoscritti, croce e detrimento di ogni editore. Qualcuno li legge davvero? Sul sito della sua casa editrice, ci dite che vi arrivano dieci romanzi al giorno, come vengono esaminati e selezionati? Alcuni editor affermano di leggere solo le prime dieci righe, altri la sintesi della trama e se non c’è, pace; altri ancora dicono di non leggere proprio, rifacendosi invece a consigli di altri editor, autori affermati, agenti, ecc. Conviene davvero a un autore poco conosciuto inviare per posta il proprio manoscritto? E se non è utile, quali altre strade consiglierebbe?
“Noi si leggono i manoscritti. Non solo ci sono pure un paio di editor che li correggono. Gli altri non so. Facciamo una prima scrematura basata su sinossi e tre capitoli. Se interessa richiediamo tutto il libro. Certo, facciamo pochi titoli. Siamo piccoli!”

Se potesse scegliere tre libri (presenti o passati) che avrebbe voluto assolutamente pubblicare quale sceglierebbe?
“Acciaio, soltanto Acciaio! Mi mangio le mani perché Silvia Avallone ha vissuto per anni a Piombino. Inoltre conosco suo padre, che vive a poche centinaia di metri da casa mia! E non sapevo neppure che lei scrivesse… A parte gli italiani, ci sono un sacco di scrittori cubani che vorrei pubblicare, ma non ho i mezzi: Virgilio Piñera, Heberto Padilla, Wendy Guerra, Guillermo Cabrera Infante, Reinaldo Arenas…”

La sua casa editrice è riuscita a essere ricompresa nelle prime selezioni del prestigioso premio Strega. Quanto sono importanti i premi per le piccole case editrici? Lei costruisce il suo piano editoriale anche in funzione delle possibili scelte delle giurie? Essere in lizza per il premio aiuta le vendite?
“Credo di aver già risposto a questa domanda. “Vendere o no non passa tra i miei rischi…”, come canta Guccini ne L’avvelenata. E chi se ne importa delle giurie? Noi si partecipa, quando possiamo, solo per giocare, per fare uno sberleffo al potere, una pernacchia al Gota letterario. Mica siamo Giulio Mozzi.”

Lei ha detto che scrive “per essere sincero con se stesso” e con il lettore? Pensa che sia necessario essere sinceri anche con lui?
“Credo che essere sinceri con se stessi voglia dire esserlo anche con gli altri. Se non prendo in giro me stesso, non mi farò beffe nemmeno del lettore. Almeno spero.”

*articolo di Pierfrancesco Matarazzo