“Sono morti venti, trent’anni fa. A Palermo”. Lo sapevano che li avrebbero fermati, prima o poi”. Sono gli “Uomini soli” di Attilio Bolzoni (La Biblioteca di Repubblica su licenza Melampo editore). Pio La Torre “segretario regionale del PCI, deputato alla Camera per tre legislature… sindacalista… ”, Carlo Alberto dalla Chiesa, generale dei Carabinieri e Prefetto di Palermo “che non piace al potere… ”, Giovanni Falcone “l’uomo che fa tremare la mafia” e Paolo Borsellino “il giudice tradito e venduto”.
Servitori dello Stato che avevano in comune tra loro un alto senso del dovere e della giustizia. Sono stati uccisi dalla mafia e a distanza di molti anni dalla loro scomparsa “non sappiamo ancora chi li ha voluti morti”. Inoltre “facevano paura al potere. Italiani troppo diversi e troppo soli per avere un’altra sorte”.
Nell’introduzione al volume l’autore con poche incisive frasi descrive il silenzio che si venne a creare intorno a La Torre, dalla Chiesa, Falcone e Borsellino. Il silenzio e il vuoto che delineavano l’anticamera dei loro rispettivi omicidi, giacché questi quattro italiani “sono stati glorificati soltanto dopo la morte”. Le loro sono state “vite scivolate in un cupo isolamento pubblico e internazionale. Fino agli agguati alle bombe”. Bolzoni ripercorre quarant’anni di vita politica siciliana e italiana, un viaggio a ritroso nel tempo filmato là nei luoghi delle stragi e degli agguati di mafia. “Li ho visti da vivi e li ho visti da morti”.
Una documentata inchiesta giornalistica frutto dell’esperienza dell’autore prima “giovanissimo reporter al giornale L’Ora” (“l’unica voce dell’altra città, quella Palermo che è contro la mafia”), in seguito “corrispondente di Repubblica in Sicilia per un quarto di secolo”. Ci ha raccontato di Sua Eminenza il Cardinale Ernesto Ruffini il quale negli anni Cinquanta disse che “la mafia è un invenzione dei comunisti per colpire la Democrazia Cristiana”, del vecchio capo Michele Navarra, degli emergenti come Bernardo Provenzano, Salvatore Riina e Luciano Liggio. Del giudice istruttore Cesare Terranova “uno dei pochi magistrati siciliani che in quegli anni non nega l’esistenza della mafia”, di un giovane Carlo Alberto dalla Chiesa “comandante della Legione di Palermo”. Degli anni Sessanta “fra colate di cemento e immense fortune venute dal nulla”, Salvo Lima e Vito Ciancimino. Degli anni Settanta mentre “per la Sicilia si annunciano anni spaventosi”, dove s’intrecciano gli assassinii dei protagonisti del libro.
Pio La Torre ha appena firmato una proposta di legge “che punta a classificare per la prima volta la mafia, tutta la mafia, come associazione per delinquere”. Il 1 maggio del 1982 il deputato siciliano “non è tra le rocce di Portella della Ginestra” perché si trova dentro una bara. I suoi saranno “funerali di rabbia e di dolore”. La Torre è morto ma la sua proposta di legge è diventata legge sul reato di associazione mafiosa. Ai suoi funerali assiste anche Carlo Alberto dalla Chiesa che ha accettato l’incarico di diventare Prefetto di Palermo. Dopo “una lunga estate di solitudine” divisa tra Villa Whitaker sede della Prefettura e Villa Pajno residenza privata del Prefetto, ecco puntuale in via Carini il 3 settembre 1982 l’omicidio “premeditato, annunciato, dichiarato”. All’Ucciardone si brinda con lo champagne “il cadavere di un generale (“58esimo Prefetto di Palermo dell’Unità Nazionale”) fatto a pezzi dallo Stato”.
Vent’anni dopo sempre a Palermo due morti eccellenti, perché Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono due giudici che devono essere annientati. Il primo “guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, resiste tra i tormenti schivando attentati dinamitardi e tranelli governativi”, il secondo, ucciso 56 giorni dopo il suo amico e collega “è venuto a sapere della trattativa Stato – mafia”. Illuminanti i ricordi personali dell’autore scritti in corsivo che rendono ancora più avvincente e toccante la storia di quattro uomini perbene che la nostra coscienza civile ci impone di non dimenticare. “La notte del 19 luglio non prendo sonno“.
“Prima di iniziare a scrivere, ho raccolto vecchie istruttorie e qualche sentenza. Ma poi ho provato un disagio profondo a leggere sempre gli stessi nomi, gli stessi mandanti delitto dopo delitto e strage dopo strage. Non sono arrivato in fondo. Non ce l’ho fatta. Sapendo già come finiva la storia di questi uomini soli”.
Nel volume Lei definisce Pio La Torre “il nemico di tutte le ingiustizie”. Desidera chiarire il Suo pensiero?
“Perché da quando era ragazzo, viveva in un contesto ambientale molto difficile ad Altarello di Baida una borgata di Palermo, dove ha dovuto scegliere subito tra combattere le ingiustizie o stare in famiglia. Siccome in famiglia c’era un ambiente molto chiuso ha scelto di entrare nel PCI in tempi molto difficili soprattutto in una città come Palermo. La Torre per combattere le ingiustizie ha scelto il partito, il suo partito, il suo grande amore in quella prima parte di vita – ma lo sarà anche dopo – a scapito della famiglia. Pensi che la casa dei La Torre è stata oggetto di intimidazione, di attentati. A un certo punto il padre ha detto a Pio “o il partito o noi”. E lui ha scelto il partito. Non aveva ancora 18 anni. Da quel momento La Torre ha avuto un percorso sempre nello stesso solco: prima accanto ai contadini e ai braccianti nella lotta contro il feudo, contro il latifondo, poi contro la mafia dell’edilizia che ha distrutto Palermo, la mafia di Ciancimino, la mafia di Lima ed era accanto agli operai del cantiere navale, in seguito da deputato in Parlamento sempre dalla parte giusta si è battuto contro altre ingiustizie, le ingiustizie dei boss della politica che lo volevano fermare. Tornato in Sicilia ha ripreso le vecchie battaglie degli anni Cinquanta e Sessanta accanto ai siciliani che scendevano in piazza contro l’installazione di missili a Comiso. Quindi Pio La Torre ha un percorso di una coerenza incredibile da quando aveva 18 anni fin al giorno della sua morte quando ne aveva 52.”
Nella famosa intervista concessa a Giorgio Bocca pubblicata su Repubblica il 10 agosto del 1982, a meno di un mese dal suo assassinio il Prefetto dalla Chiesa dichiarò tra le altre cose che “l’Italia perbene sbaglia a disinteressarsi di quello che sta accadendo in Sicilia”. A distanza di trent’anni cosa è cambiato nella mentalità del popolo siciliano e degli italiani in generale?
“Purtroppo il Generale dalla Chiesa aveva ragione. È cambiato molto secondo me nella mentalità e nella crescita civile dei siciliani ma anche in parte dei calabresi negli ultimi anni, dei campani e dei meridionali in genere. Mi spiego meglio: dove ci sono le mafie la società civile è cresciuta, dove ufficialmente non ci sono le mafie cioè in quelle regioni non tradizionalmente occupate dal punto di vista proprio territoriale dalla mafie, continuano a fare finta di niente. Il monito del Generale dalla Chiesa è ancora valido oggi: fanno finta a Milano, fanno finta a Roma, in Piemonte e in Veneto, non rendendosi conto che prima arrivano quei soldi e poi arrivano sempre loro. Credo che l’Italia non abbia imparato nulla in questi trent’anni, mentre la Sicilia, la Campania, la Calabria, le Puglie, tutte quelle zone che hanno vissuto grandi tragedie siano cresciute. Non posso dire altrimenti del resto d’Italia. Dell’Italia che è stata riempita dai soldi sporchi della mafia ce ne accorgiamo solo davanti a un’inchiesta giudiziaria o davanti a un cadavere. Ma ci sono tutti gli strumenti per prevenire queste invasioni, anche culturali non solo di repressione giudiziaria. Eppure l’Italia non è cresciuta, non vuole sentire l’odore dei soldi sporchi.”
Per quale motivo Giovanni Falcone fu “il primo a mettere veramente paura alla mafia”?
“Perché per la prima volta ha trovato un sistema, metodo per indagarla che non era stato mai sperimentato prima. Sostanzialmente Falcone ha fatto due cose: non ha indagato i singoli delitti e i singoli componenti di una famiglia mafiosa ma li ha indagati tutti insieme. Non ha mai indagato un mafioso per un reato che aveva commesso ma lo ha indagato nel contesto dell’organizzazione alla quale apparteneva. Ha scoperto che l’organizzazione è una con un governo che si chiamava Cupola. La seconda cosa importante è che Falcone non ha indagato soltanto per omicidi e traffici di droga, estorsioni, ma ha scoperto la cosa che più fa male alla mafia: le indagini patrimoniali. È stato il primo magistrato che nel 1979 ha chiesto ad esempio alla Cassa di Risparmio di Palermo tutte le distinte di valuta estera andate sui conti siciliani dal 1975 al 1979. Lo hanno preso per pazzo. Il Presidente della Corte d’Appello di Palermo, cioè il più alto magistrato in grado della città così si è rivolto al Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, cioè il capo diretto di Falcone: “chi è questo Falcone che vuole rovinare l’economia siciliana? Togligli l’indagine sugli Spatola, perché da che mondo è mondo un giudice istruttore non ha mai scoperto niente”. Rosario Spatola era uno dei più grossi costruttori mafiosi di Palermo considerato un benefattore, perché dava lavoro. Da quel nucleo di indagine nacque qualche anno dopo il Maxi Processo a Cosa Nostra.”
“È un uomo diritto Paolo Borsellino, ha il culto della parola data, il senso dell’onore, è leale, generoso… ”. Che ricordi conserva dell’uomo Borsellino?
“Un uomo straordinario, molto siciliano, molto affettuoso, molto paterno con i suoi giudici ragazzini quando era a Marsala. Tecnicamente bravissimo, un uomo che non si fermava davanti a niente. Dopo la strage di Capaci lui sapeva che doveva morire. Aveva molta paura ma soprattutto perché adorava i suoi figli e non voleva lasciarli soli, però non ha fatto un passo indietro è andato avanti ugualmente.”
Nel suo recente articolo Quando il Palazzo tremava per le bombe di Cosa Nostra (1) scrive che “l’alta tensione di questi giorni con il Quirinale trascinato nel gorgo di polemiche incandescenti è la dimostrazione che non siamo ancora in grado di sopportare certe verità”. Viene spontaneo domandarsi per quale motivo.
“Perché non sappiamo ancora la verità. Credo che ci sia stata una parte dello Stato che ha trattato prima, durante e dopo le stragi del ’92. Da quello che emerge da certe indagini della Procura di Caltanissetta credo che ci siano anche apparati dello Stato che a quelle stragi potrebbero avere partecipato. La nostra è una democrazia troppo giovane dopo soli 20 anni non siamo in grado di sopportare tutto questo. Sicuramente mentre c’è una parte dello Stato che ha lavorato in questi 20 anni per scoprire la verità, mi riferisco a magistrati, a investigatori, c’è un’altra parte dello Stato che ha lavorato per allontanarci dalla verità.”
Ha dedicato il libro “al mio caro amico Peppe”. Che cosa hanno rappresentato per il Paese, per Repubblica e per i lettori le inchieste giornalistiche di Giuseppe D’Avanzo?
“Il giornalismo corretto, lineare, coraggioso, semplice. Non un giornalismo che parla ai potenti e ai Palazzi ma un giornalismo che parla ai propri lettori. Questo ha rappresentato il giornalismo di Giuseppe D’Avanzo.”
(1) La Repubblica 22 giugno 2012
Attilio Bolzoni, è nato a Santo Stefano Lodigiano il 20 settembre 1955. Giornalista di La Repubblica, scrive di mafie dalla fine degli Anni Settanta vivendo a Palermo dal 1979 al 2004. Ha pubblicato con Giuseppe D’Avanzo La giustizia è cosa nostra (Mondadori, 1995), Rostagno: un delitto tra amici (Mondadori, 1996), Il capo dei capi (BUR – Rizzoli, 2007). Con Saverio Lodato C’era una volta la lotta alla mafia (Garzanti, 1998). Ha scritto anche: Parole d’onore (BUR – Rizzoli, 2008) e Faq Mafia (Bompiani, 2010). Nel 2009 ha ricevuto il premio “È giornalismo” perché da più di trent’anni racconta la Sicilia e la mafia.
Uomini soli acquistabile in edicola dal 16 maggio è accompagnato dal DVD omonimo che contiene un film documentario di Paolo Santolini, scritto da Michele Astori, Attilio Bolzoni e Paolo Santolini, prodotto da Faber Film e dall’associazione Libera. Le musiche originali sono di Stefano Bollani
Autore: Attilio Bolzoni
Titolo: Uomini soli
Editore: La Biblioteca di Repubblica su licenza Melampo
Anno di pubblicazione: 2012
Prezzo: 12,90 euro
Pagine: 209