“In un raggio di sole marzolino ancora un po’ timido Maigret stava giocando” è l’incipit di “Maigret e il Signor Charles” (Adelphi 2012) di Georges Simenon.
L’ultima inchiesta del celebre commissario del Quai des Orfevrès, sede centrale della polizia parigina, terminata di scrivere l’11 febbraio del 1972 a Epalinges nel cantone Svizzero del Vaud e pubblicata nel luglio dello stesso anno.
Maigret giocava con le sue immancabili pipe sistemate sulla scrivania che “sceglieva accuratamente in base al suo umore”, lo sguardo vago e “le spalle incassate”, perché il commissario “aveva appena preso una decisione riguardo agli ultimi anni della sua carriera”. Anche il suo creatore aveva preso un’importante risoluzione: dopo 192 romanzi firmati con il suo nome, Simenon che stava per compiere settant’anni era stanco di cucirsi addosso la pelle, la personalità degli altri, i lori delitti, fantasmi, ossessioni e desideri irrealizzabili. Nonostante avesse annotato su di una busta gialla, com’era sua abitudine, il titolo del suo prossimo romanzo, Victor con una sintetica lista dei vari personaggi del dramma, Simenon non avrebbe mai dato alle stampe questo libro che sarebbe rimasto nella sua mente per sempre. Per uno strano scherzo del destino, perfetto schema per una trama dei suoi libri, i romanzi di Simenon (redatti tra il 1931 e il 1972) sarebbero terminati proprio lì dove tutto era iniziato cioè con Pietr il Lettone, la prima indagine di Jules Maigret. Il cerchio si era chiuso con Maigret e il Signor Charles. L’ultimo Maigret recita la fascetta rossa che accompagna il volume, in copertina una fotografia in bianco e nero di Patrick Zachmann. “Di là, nel mio ufficio, c’è una donna che insiste per vederla personalmente… ”. Con questa frase del poliziotto Lapointe rivolta al suo capo inizia Maigret et Monsieur Charles dove Madame Sabin – Levesque moglie di “uno dei notai più importanti di Parigi” chiedeva l’aiuto del commissario per rintracciare il marito scomparso da più di un mese. Gérard che aveva ereditato dal padre lo studio situato al 207 di Boulevard Saint Germain insieme a “una delle più belle clientele di Parigi” aveva la mania di frequentare sotto falso nome i locali notturni e le entraineuse che vi lavoravano. ”È un tipo che perde la testa. Se incontra una donna che gli piace, non può fare a meno di vivere con lei per qualche giorno”. Ma questa volta l’assenza del Signor Charles si era protratta troppo a lungo. Per ricostruire il carattere di “un uomo importante che, quando vuole divertirsi, è costretto a nascondere la sua vera identità”, Maigret ancora una volta, anzi l’ultima si sarebbe calato nella personalità della vittima senza pregiudizi di sorta, perché come tutti gli appassionati delle vicende del robusto poliziotto francese sanno, l’espressione preferita di Jules è sempre la stessa “Io non penso niente”.
I romanzi del commissario scalano sempre la classifica dei tascabili, perché è impossibile non lasciarsi affascinare, sedurre da atmosfere senza tempo, immutabili. Maigret è sempre lì seduto dietro la sua scrivania di fronte alla “finestra che luccicava di sole”, a pranzo alla Brasserie Dauphine, oppure lo s’immagina camminare sul Lungosenna a “sentire che aria tirava, a scoprire, a ogni nuova inchiesta, mondi diversi”.
Abbiamo intervistato Giorgio Pinotti ed Ena Marchi curatori per Adelphi della collana Le inchieste del commissario Maigret.
“Il commissario Maigret della prima squadra mobile, alzò la testa, ebbe l’impressione che il ronzio della stufa di ghisa… ”. Dottor Pinotti, ci lascia tre aggettivi per definire la personalità di Jules Maigret?
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Empatico (uomo in equilibrio tra due mondi, Maigret è capace di immedesimarsi negli altri, di mettersi nella loro pelle: persino in quella di criminali ed emarginati).
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Cupo (non di rado Maigret è turbato, inquieto, di cattivo umore: non solo ha un passato traumatico, ma partecipa emotivamente a ogni inchiesta fino al punto di somatizzare l’ansia. Proprio come Simenon, che durante la stesura, fulminea e spossante, dei suoi romanzi soffriva di gravi malesseri).
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Paterno (Capace di decifrare e comprendere le passioni altrui, ma poco incline a cedervi, protettivo nei confronti dei suoi collaboratori, in particolare Lapointe, Maigret incarna una figura paterna, che oppone al perturbante caos del crimine e del desiderio la placida certezza della stabilità piccolo-borghese).
Tra le Sue traduzioni dei romanzi di Simenon citiamo Maigret e il caso Saint Fiacre. Considerata la raffinata tecnica di narrazione dello scrittore, che cosa implica entrare nel mondo realista e insieme onirico di Simenon? Tradurre Simenon è molto più arduo di quanto non si pensi. L’efficacia delle descrizioni, l’immediatezza dei dialoghi, la trasparenza della lingua, il ritmo della prosa mettono a dura prova – ma è un meraviglioso atelier di scrittura. Il mondo dei romanzi di Simenon, inoltre, è coinvolgente e insieme perturbante: spesso, senza saperlo, i suoi personaggi recitano una parte o vivono la vita sbagliata, sinché un evento traumatico smaschera l’inganno – e non resta allora che ribellarsi, andare sino in fondo per ritrovare se stessi, costi quel che costi. È quel che accade ad esempio a Léonard Planchon, il protagonista di una delle mie inchieste preferite, Maigret e il cliente del sabato.
Uno stile sintetico, preciso, quotidiano, assolutamente coinvolgente. Che cosa rende così suggestiva e singolare l’opera omnia dell’autore belga? Per limitarmi ai 75 Maigret: l’invenzione di un detective assai poco ortodosso, che risolve i casi assumendo un atteggiamento ricettivo, abbandonandosi alle percezioni, fiutando, lasciandosi impregnare. Ma soprattutto l’invenzione di polizieschi che nel corso degli anni guadagnano in spessore romanzesco, fino ad avvicinarsi ai romans-romans e a trasformarsi in una memorabile galleria di destini.
Dottoressa Marchi, solitamente l’incantamento per i romanzi di Simenon avviene da giovanissimi. È stato così anche per Lei? Sì. A dodici anni li leggevo avidamente, soprattutto i Maigret: di nascosto da mia madre, però, al cui acuto sguardo puritano non sfuggiva il lato sottilmente torbido, a volte perfino scabroso, dei romanzi di Simenon. Poi, a vent’anni, mi è capitato di essere scritturata come “figurante speciale” in un paio dei Maigret della quarta e ultima serie prodotta dalla RAI, che venivano registrati negli studi di Napoli: quasi una strizzatina d’occhio del destino, non le pare?
Andrea Camilleri ha definito Simenon “straordinario scrittore, straordinario osservatore”. È d’accordo con la dichiarazione dell’autore siciliano? Altroché. Del resto, lui stesso dichiarava di essere privo di fantasia e di raccontare solo cose che aveva visto: Parigi, con le sue strade e i suoi bistrot; le piccole città della provincia francese, con i loro caffè pieni di specchi e i loro compunti salotti borghesi; ma anche l’Africa coloniale e Haiti, il Belgio della sua infanzia e gli Stati Uniti, in cui ha vissuto dieci anni. E tutto questo Simenon ce lo restituisce con una implacabile precisione. La stessa con cui sa penetrare (e far penetrare il lettore) nei percorsi mentali, nelle ossessioni, e spesso nei deliri, dei suoi personaggi.
Qual è il segreto per tradurre nel modo più fedele possibile i romanzi dello scrittore belga che usava non più di duemila vocaboli? Proprio rispettare quella sua implacabile precisione, e l’asciuttezza del suo stile: nelle descrizioni come nei dialoghi, Simenon non usa mai parole astratte, ma si serve solo di quelle che lui definisce mots-matière (parole-materia), ossia aggettivi (ma anche sostantivi, verbi, avverbi) che fanno appello ai sensi del lettore, che sono in grado di evocare un odore, un suono, una certa qualità della luce, l’atteggiamento di una persona (a sua volta rivelatore di uno stato d’animo).
Giorgio Pinotti è editor in chief presso Adelphi. Con Ena Marchi cura la serie Le inchieste del commissario Maigret. Ha tradotto opere di Georges Simenon, Jean Genet (premio Elsa Morante – Isola di Arturo), Vincent de Swarte, Milan Kundera, Jean Echenoz. È autore di saggi sul d’Annunzio delle Laudi, Curzio Malaparte, Carlo Emilio Gadda, Georges Simenon, Irène Némirovsky, Jean Echenoz, e ha curato l’edizione di numerosi testi gaddiani, fra cui Disegni milanesi (con Dante Isella e Paola Italia, 1995), Lettere a Livio Garzanti (2006), Villa in Brianza (2007), Lettere a Gian Carlo Roscioni (2010), Accoppiamenti giudiziosi (con Paola Italia, 2011). È membro del comitato scientifico dei «Quaderni dell’Ingegnere. Testi e studi gaddiani» (Guanda) e dell’Editorial Board dell’«Edinburgh Journal of Gadda Studies».
Ena Marchi, napoletana, dal 1990 è editor della narrativa francese e italiana della casa editrice Adelphi. Ha tradotto testi di Antonin Artaud, Vivant Denon, Milan Kundera, Henri-Pierre Roché Dai Sijie, Marcel Jouhandeau. Da parecchi anni tiene regolarmente seminari sulla traduzione e sui diversi aspetti del lavoro redazionale. Ha ricevuto il Premio Fedrigoni 2011 per “il suo appassionato lavoro di traduttrice dal francese” e “per la sua attenzione alla traduzione come editor”.
Georges Simenon nacque a Liegi il 13 febbraio 1903 e morì a Losanna il 4 settembre 1989. Scrittore belga di lingua francese è stato uno dei narratori più prolifici del XX Secolo. Scrisse centinaia di romanzi e racconti, molti pubblicati sotto diversi pseudonimi, tradotti in cinquanta lingue e pubblicati in più di quaranta Paesi. Oltre che per i romanzi noir, psicologici e di guerra Simenon è noto soprattutto per essere l’ideatore del commissario Maigret (75 romanzi e 28 racconti dedicati alle sue inchieste), che ha contribuito in maniera decisiva alla fama e al successo dello scrittore. Molti romanzi sono divenuti film e sceneggiati televisivi. I libri di Georges Simenon sono pubblicati presso Adelphi dal 1985.
Maigret e il Signor Charles è tradotto da Laura Frausin Guarino.
Autore: Georges Simenon
Titolo: Maigret e il Signor Charles
Editore: Adelphi
Anno di pubblicazione: 2012
Prezzo: 10 euro
Pagine: 168