“Hotel du Lac” (Neri Pozza, 2012) è il titolo del romanzo della scrittrice, critica d’arte e saggista londinese Anita Brookner: pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1984, è stato il vincitore del Booker Prize. La protagonista è una donna inglese già in là con gli anni ma non sposata, Edith Hope, che, pur non avendo grande esperienza in questo campo, scrive narrativa romantica con “un più allettante pseudonimo”.
Edith si trova a trascorrere qualche settimana, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, in un tranquillo albergo sulle sponde del lago di Ginevra noto per la cucina eccellente, le lunghe passeggiate, l’assenza di emozioni e i sonni tranquilli: “Le avevano assicurato che lì avrebbe ritrovato la sua personalità seria e laboriosa, dopo aver dimenticato il malaugurato evento che l’aveva condotta a quel temporaneo esilio, in quel luogo apparentemente spopolato, in quella stagione dell’anno che imbruniva lentamente, quando sarebbe dovuta essere a casa sua…”.
Lasciamo al lettore il piacere di scoprire quale sia il “malaugurato evento” che l’ha portata a questo temporaneo isolamento, di sicuro gli amici sono convinti che Edith, dopo un terapeutico soggiorno in quella grigia solitudine, si dimostrerà più matura, più saggia e convenientemente ravveduta. Eppure la donna sa di essere una persona seria: è indipendente, ha una casa, paga le tasse, consegna i dattiloscritti prima della scadenza, possiede una personalità schiva e fiduciosa e, anche se ha annoiato gli altri, certo non si è mai permessa di annoiare se stessa. Insomma, il suo è un profilo basso, destinato a rimanere tale, se non fosse per la relazione con un uomo sposato…
L’hotel in riva al lago ospita pochi turisti: oltre al proprietario, il vecchio signor Huber , lo popolano, in questo periodo di fine stagione, madame de Bonneuil, una donna anziana, molto piccola con la faccia da bulldog, che cammina sorreggendosi ad un bastone; Monica, con il suo inseparabile cagnolino Kiki, una donna alta di straordinaria magrezza, con la testa stretta e ciondolante come un uccellino; la signora Pusey e la figlia Jennifer, che emanano vitalità, eleganza, fascino e ricchezza. E poi c’è il più che benestante signor Neville, ammiratore di Edith, il quale, già ferito dalla precedente esperienza, le propone più che un matrimonio, un sodalizio basato sulla fiducia, che le garantirà stabilità economica, una posizione sociale, fiducia in sé e modi raffinati.
La scelta che si pone, per Edith, è allora fra l’accettare la proposta del signor Neville, sistemarsi e diventare quel tipo di donna che ha sempre invidiato, e il ritorno in una casa chiusa, fredda, impolverata, con le lettere non aperte posate sopra lo zerbino, i vetri delle finestre sporchi, le stanze non aerate, abbandonate con i vecchi odori di cibi che impregnano le tendine; e lei stessa dimenticata, con il telefono che non squilla; depennata dagli elenchi degli invitati ai ricevimenti degli editori da segretarie giovani ed efficienti. In altre parole, deve scegliere fra un amore passionale per il quale sacrificare tutto e la rispettabilità garantita da un rapporto basato su contratto di reciproca fiducia.
Come già sottolineato da altri, Edith Hope è “uno dei personaggi più riusciti e indimenticabili della narrativa contemporanea”: il suo sentirsi pressoché invisibile in un ambiente che, pur non essendole ostile, la fa sentire fuori luogo, crea una distanza fra lei e gli altri, ma le permette, nello stesso di osservarli con curiosità, quasi fossero gli strani abitanti di un pianeta sconosciuto.
Il rimprovero che Monica muove ad Edith – “Credevo lei fosse una scrittrice: allora non dovrebbe essere particolarmente dotata nell’osservazione della natura umana e in cose del genere?” – e la sua risposta – “… non ho mai detto di essere brava a osservare la natura umana. Perché dovrei esserlo? Quello che vedo mi sembra così diverso da quello che penso che non mi fido più della mia capacità di giudizio. Sono semplicemente delusa quanto lei, posso assicurarglielo. Forse solo un po’ di più” – sono in apparente contrasto con la profonda lucidità dello sguardo, con la capacità di penetrare al di là delle apparenze e di catturare la vera essenza degli ospiti che, nell’atmosfera malinconica, grigia ed ovattata dell’hotel e del lago, sembrano giocare un ruolo prestabilito, se non addirittura nascondersi dietro una maschera.
Il talento della Brookner per la rappresentazione di realtà sociali in divenire e la sua acuta visione dei conflitti fra uomini e donne, delle varie forme dell’esperienza amorosa, si esprimono dunque nella descrizione di persone e luoghi, i pur minimi moti dell’animo quanto i dettagli più piccoli delle cose. Tanto che in questo romanzo breve, dove ogni parte contribuisce all’equilibrio complessivo – formale, linguistico e della trama – persino ciò che la Brookner tace è importante quanto ciò che ci viene raccontato.
Anita Brookner è nata e vive a Londra. Storica dell’arte, è stata docente al Courtauld Institute of Art e ha pubblicato saggi sulla pittura francese del Settecento e dell’Ottocento. Ha esordito come narratore nel 1981 raccogliendo il consenso della critica e l’apprezzamento dei lettori. Ha scritto venti romanzi, tra cui, oltre a Le regole dell’impegno eGuardatemi (Neri Pozza 2008), si segnalano Leaving Home, Providence, Hotel du Lac (Booker Prize 1984),Incidents in the Rue Laugier, Falling Slowly.
Autore: Anita Brookner
Titolo: Hotel du lac
Editore: Neri Pozza
Anno di pubblicazione: 2012
Pagine: 192
Prezzo: 15 euro
* articolo di Lidia Gualdoni