Con “Congo. Inferno verde” (Fazi), lo scrittore A. S. Piňol raggiunge un felice equilibrio fra vari generi è, nello stesso tempo, romanzo d’avventura, d’amore, di guerra e fantastico.
Pur scandagliando le zone più cupe dell’animo umano, non rinuncia ad una scrittura divertente ed ironica e, attraverso la messa in scena di situazioni e di personaggi davvero indimenticabili, ha il fascino di un affresco vivace, vitale e, soprattutto, originale.
“Questa storia cominciò con tre funerali e finì con un cuore spezzato: il mio. Nell’estate del 1914 avevo diciannove anni ed ero mezzo asmatico, mezzo pacifista e mezzo scrittore. Mezzo asmatico: tossivo la metà dei malati, ma il doppio dei sani. Mezzo pacifista: perché in realtà ero troppo smidollato per militare contro le guerre, ero solo contro il fatto di parteciparvi. Mezzo scrittore: la parola scrittore è troppo pretenziosa, ed esagero perfino quando dico «mezzo scrittore». Mi dedicavo a scrivere libri su commissione. Cioè ero un negro. (Nel mondo editoriale si chiamava «negro» chi scriveva libri firmati da altri)”.
A raccontarci questa storia è Thomas Thomson che, a distanza di sessant’anni, rileggendo il libro che aveva creato scalpore, che era stato elogiato e che aveva ricevuto fior di riconoscimenti, non si riconosce nel ragazzo che lo aveva scritto: “Quelle pagine avevano attraversato il tempo, tutto il mio tempo. Ma non arrivavano fino a me”. E così decide di raccontare una nuova versione della vicenda che lo ha visto protagonista insieme ad un giovane avvocato, ad un condannato a morte e quella verdeggiante distesa di alberi che allora era il Congo.
All’epoca Thomson viveva in una camera d’affitto in un quartiere umile di Londra, in una dimora che la proprietaria, la signora Pinkerton, era stata costretta a trasformare in una pensione. Oltre a due o tre inquilini annoiati e al signor MacMahon, un irlandese dal cognome scozzese, ospite fisso della casa era Maria Antonietta, la tartaruga “più insolita e più perversa mai esistita” – era nata senza corazza o forse era sopravvissuta alla sua perdita.
Proprio il giorno in cui Thomson scopre, non senza grande sorpresa, di essere il negro del negro del negro del Dottor Flag – l’autore che, con i suoi tre racconti pubblicati ogni settimana da vent’anni, è stato il più prolifico della letteratura inglese – si imbatte in un avvocato che gli propone un incarico piuttosto strano. Deve scrivere la storia africana raccontata da un ragazzo, Marcus Garvey, che si trova in prigione, accusato di aver ucciso i fratelli Richard e William, figli del duca di Craver. I due sono partiti per il Congo nell’estate del 1912 e Marcus li accompagnava come aiutante: si sono addentrati nella foresta fino a raggiungere territori remoti ed inesplorati in cerca di fortuna, ma solo Marcus ha fatto ritorno. E’ scampato alla giustizia fino a che non è stato catturato a Londra ed ora, con la testimonianza dell’ambasciatore inglese nel Congo, la confessione dello stesso Garvey e il movente del delitto – due diamanti dal valore incalcolabile – la pena di morte sembra essere l’esito naturale del processo.
La storia “nella storia” raccontata da Marcus a Thomson, dalla prigione dove è rinchiuso, è davvero straordinaria quanto incredibile: in un’Africa ancora in massima parte inesplorata, selvaggia e popolata da cannibali, pigmei, capi tribù, negrieri, esploratori folli, animali pericolosi che si muovono in una vegetazione lussureggiante ed altrettanto selvaggia, prendono vita gli orrori del colonialismo – file di schiavi agonizzanti, tribù ribelli da sottomettere con la violenza e un territorio ricco di tesori. Giunti alla fine del mondo, o forse ancora più in là, i padroni bianchi trovano una miniera d’oro che, giorno dopo giorno, diventa sempre più grande e profonda, tanto da diventare l’accesso ad un mondo sconosciuto e sotterraneo, abitato da strani individui, dalla pelle bianchissima, dal cranio appuntito, la faccia piena di spigoli, le orecchie “capovolte”, sei lunghe dita per ogni mano e occhi enigmatici, scavati nella carne come due caverne. In questo contesto, però, non può mancare una tormentata storia d’amore e il colpo di scena finale, che coincide con la presa di coscienza, da parte del protagonista, dei meccanismi che regolano i rapporti basati sul potere, ma anche dei molti modi in cui la realtà può essere manipolata a discapito della verità e della giustizia.
Albert Sánchez Piñol, scrittore catalano, antropologo, già autore di un saggio sulle dittature africane dal titolo Pagliacci e Mostri, è divenuto un caso editoriale con Congo. Inferno verde (150.000 copie vendute in Spagna, oltre 200.000 copie vendute all’estero). Piñol costruisce un romanzo d’avventura mozzafiato, nell’alveo della tradizione del fantastico, accostato dalla critica a Verne e Conrad, che è assieme una allegoria, una satira anti-imperialista e una profonda denuncia del colonialismo e delle sue efferatezze. Al centro del romanzo, ambientato in Congo (dove l’autore ha lungamente soggiornato) all’inizio del Novecento, si accampano, in una chiave profondamente umoristica i temi dello scontro di civiltà, del rapporto tra colpa e innocenza, tra letteratura e realtà.
Autore: Albert Sánchez Piňol
Titolo: Congo. Inferno verde
Editore: Fazi Editore
Anno di pubblicazione: 2011
Pagine 479
Prezzo: 19,50 euro
Articolo di Lidia Gualdoni