Una famiglia priva di un figlio di buona donna rischia di non essere abbastanza interessante, per chi scrive e per chi legge. Non so se è stato questo il pensiero che ha mosso Marilynne Robinson a proseguire il racconto di Gilead, con questo “Casa“ (Einaudi), quasi un romanzo da camera se non fosse che ogni occasione è buona per mandare la storia avanti e indietro fuori dalle mura in cui si svolge.
Certo deve averlo pensato da subito Jack Boughton, ancora ragazzo: immettere un po’ di destabilizzante turbolenza in un piccolo clan di brave persone, al vertice del quale asside il padre, pastore presbiteriano, che nell’isolata cittadina di Gilead vive come un nume tutelare dei suoi concittadini, ben piantato nella propria casa che dovrebbe essere il centro di questo mondo sovratemporale, confitto in se stesso – e trova la sua nevralgia invece nel figlio difficile, Jack, che già da “bambino sapeva chiedere scusa con la stessa scioltezza con cui il resto dei Boughton recitava il Credo”.
Uno così, una volta adulto, una volta malmenato a dovere dalla vita, si aspetta che se sarà costretto a tornare nella casa avita lo farà solo per disperazione, non certo per trovare un’armonia che è sempre stato il primo a mettere a rischio. La sorella Glory, anche lei uscita a pezzi da una brutta delusione sentimentale, invece farà fatica a riconoscere che “il passato era una cosa bellissima, quando restava al suo posto”, che Gilead poteva struggerla di nostalgia ogni volta che le veniva alla mente, ma che tornarci ora poteva risultarle fatale.
Però intanto mostra di accontentarsi; ora che è di nuovo lì da sola con suo padre, trascorrendo giornate in “una routine sopportabile”. Le cose potrebbero anche essere peggiori di così; è vero che il fratello ora che è tornato “sembra disposto a dare una mano anche con il vecchio”, ma manifesta uno zelo un po’ troppo rituale nell’accettazione volontaria dei suoi compiti – tale da rendere squilibrato l’improbabile benessere agognato da tutti. Se da una parte Glory prova a rafforzare il legame fra i due maschi (la consuetudine con la Bibbia e i corollari etici – in chiave presbiteriana – che ne derivano rende in apparenza il rapporto con suo padre meno problematico di quanto non sia quello con il fratello, anche se ora fatica a pregare come faceva un tempo) dall’altra arriva a domandarsi “che diritto aveva lui di prendere il comando della casa in quel modo?”
Ecco, a Gilead (che è anche il titolo del precedente romanzo) l’avversario vero della famiglia è il tempo. Difatti agisce nel romanzo della Robinson implacabile e ultorio, vanamente tenuto a freno, fuori dal perimetro (la casa…) dal povero pastore, chiuso nel suo mondo immutabile, restio a comprendere e accettare l’urto del mondo che bussa alla sua porta attraverso le esperienze “sbagliate” del figlio. Parliamo di quell’America lì, proto-religiosa e tradizionalista. e della famiglia col suo consueto coacervo di delusioni, rancori, incomprensioni. Per un anziano la cui opzione culturale e religiosa prescrive un’autorità non negoziabile, la facilità pop di un’inversione morale così smaccata non è prevista: il figlio è pur sempre l’uomo scappato dalla comunità per aver messo incinta una povera disgraziata. Per quanto provino a perdonarsi, a comprendersi, ad accettarsi, è molto difficile.
Il romanzo ha vinto l’Orange Prize. La giuria ha parlato di un «racconto gentile, saggio, scritto in modo squisito». Potremmo dire non privo di lirismo, anche, ma certo, non esattamente consolatorio.
Marilynne Robinson, scrittrice americana quasi settantenne è autrice di soli tre romanzi, ha vinto il Pen/Faulkner Award con il primo, Housekeeping, e si è aggiudicata il National Book Critics Circle Award for Fiction 2004 nonché il Pulitzer Prize for Fiction 2005 con il secondo Gilead, sempre tradotto da Einaudi). Insegna scrittura creativa all’Università dell’Iowa.
Autore: Marilynne Robinson
Titolo: Casa
Editore: Einaudi
Traduzione di Eva Kampmann
Pagine: 332
Prezzo: 20 euro