Vorrei muovere alcuni interrogativi a questo nuovo libro di Marco Onofrio. Il primo riguarda il rapporto tra poetiche e opere d’arte: il proliferare delle poetiche nel Novecento, si è detto, è il segno del dibattito, del dialogo che sorge intorno all’opera, proprio in quanto istitutiva di un «nuovo mondo»; ma è anche vero che il fenomeno delle poetiche ha la sua spiegazione nell’orizzonte del «vecchio mondo» per creare il «nuovo mondo» che l’opera inaugurerà: il fenomeno delle poetiche non sarebbe tanto un modo dell’abitare e del dialogare con l’opera, ma ciò che rende possibile, oltre il mondo dell’opera, la fondazione del suo mondo. Se così è, il linguaggio-parola assume un carattere super-eventuale, sottratto alla relatività dell’ambito di mondo e diventa ciò che domina la pluralità dei mondi e li mette in comunicazione: una conclusione simile che assegna al linguaggio un valore trascendentale e meta-mondano, peraltro, forse non dispiacerebbe a Marco Onofrio; si tratta di capire in che termini, però, giacché se l’essere-linguaggio è una dimensione trascendentale, l’opera poetica sarà semantizzata in termini di struttura permanente, immutabile, il che è ben lontano dagli intenti del poeta romano. Onofrio, invece, credo, si limiti a semantizzare l’esperienza mutevole del mondo; è convinto che questa sia la giusta metodologia di intervento nell’apertura del mondo, nell’ambito del quale non è data alcuna posizione dominante al carattere veritativo dell’essenza come di un rivelarsi e di un darsi. Così come non c’è una essenza autentica se non nell’inautenticità generale del mondo semantizzato, così la poesia di Onofrio accetta la semantizzazione del mondo per riportarla entro i canoni della metratura dell’endecasillabo e della marcatura (rigidamente controllata) a strofe, come ben rilevato dal saggio in post-fazione di Aldo Onorati. Marco Onofrio accetta l’assunto secondo cui la forma-poesia accetta, è costretta ad accettare, la condizione e i limiti di una situazione ontologica che riserva ad essa un mondo già semantizzato, ma per stravolgerne i semantemi secondo la ribellione dell’«io» che non accetta, non può accettare l’imperialismo della comunicazione total-mediatica.
La seconda interrogazione riguarda la nota tesi della mitologizzazione dell’opera d’arte. Gianni Vattimo, per rispondere a questa domanda, sostiene che poche opere d’arte possono essere considerate come fondatrici di mondo, e tra queste ritroviamo, ad esempio, la Bibbia o la Commedia di Dante. Ma, a rigor di termini, nemmeno esse possono essere considerate fondatrici di mondo: se proviamo ad abitare il mondo della Commedia ci rendiamo subito conto di essere circondati da un tessuto simbolico che non possiamo capire, vivere, utilizzare, se non in riferimento a qualcosa di esterno al mondo dell’opera, cioè il contesto storico. Vattimo ci taccerebbe di sociologismo spicciolo, ma si tratta allora di capire in che termini un’opera è abitabile e se essa possa costituirsi anche come territorio ostile, inabitabile, radicalmente refrattario a qualsiasi tentativo di ermeneutica: non è un fatto secondario che un’opera sia più abitabile in un periodo storico e meno in un altro; questo fa pensare che il mondo di ogni opera sia inscritto sempre in un mondo più ampio secondo una geometria concentrica di mondi. Tuttavia, la definizione dell’opera come fondazione di mondo ci sembra calzante, in via del tutto eccezionale, a proposito di opere collettive, vere «enciclopedie tribali», come i poemi omerici o la Bibbia: in questo caso l’opera rappresenta la genesi culturale di una civiltà e di un popolo, la struttura del suo ethos.
La terza domanda riguarda la semantizzazione dell’essere e del mondo che l’opera di Marco Onofrio annuncia e denuncia. Per un verso sembra che l’essere sia solo il suo eventualizzarsi, ma per l’altro l’essere è identificato con la riserva di significati, con la forza originante della terra. Se nel primo caso è fatta valere l’esigenza di distaccarsi dalla tradizione metafisica che intende l’essere come presenza data, nel secondo caso sembra che non ci si possa staccare da questa prospettiva presenziale, tanto che per rendere ragione del divenire delle interpretazioni entro il mondo, si deve postulare una possibilità permanente di significazioni oltre l’accadere dell’evento e del mondo: certo questo «oltre» non ha i caratteri della attualità presenziale, ma quelli della possibilità presenziale, il che non toglie che sia necessario ammettere un già-dato, un già-posto, pur nella sua accezione di posizione di possibilità.
Allora Disfunzioni, questo poemetto a gironi infernali suddiviso in strofe dove si mostra un «io» in un mondo ostile e belligerante contro cui la vocabologia disperata dell’autore si abbatte come un fiondare e lacerare il tessuto della versificazione, è un poemetto «antico» che qui viene riproposto sotto mentite spoglie. La poesia di Disfunzioni promana da un paesaggio-messaggio crivellato e bombardato; è una testimonianza allarmata, testimonianza di un vaticinio apotropaico, è rebus e cifrario di un armamentario debellato. È ovvio che si intende qui una liturgia laica e addirittura disperata per quella assenza del divino (e del politico, come politica della polis) di cui questa poesia esibisce la propria carta di identità. Ciò che è visibile all’esterno, ovvero, alla prima lettura, è proprio ciò che si nasconde e che deve restare rimosso, sepolto. Le «parole» di questa poesia sono le tessere semantiche, le semantizzazioni, gli strumenti di un mondo semantizzato, post-tecnologico che ha già superato lo stadio della iper-produzione per riversarsi nel moto di ritorno dall’entropia. In questo senso, e solo in questo senso, è un libro che ricade nel demanio della nostra epoca della stagnazione politica, economica e spirituale. Il linguaggio del discorso poetico di Marco Onofrio si nutre dello stesso procedimento «fagocitatorio» che regna nel libero mercato della produzione semantizzata: contestualizza nel nuovo sistema segnico gli elementi de-contestualizzati del «vecchio» sistema semantico.
Come lo strumento rivela l’essenza della tecnica soltanto quando s’inceppa e si guasta, come lo strumento è trasparente finché lo si utilizza entro il circuito della produzione; ecco che esso diventa pienamente visibile soltanto quando s’inceppa o si guasta e diventa infungibile alle esigenze della produzione per il mercato semantico. Analogamente, il «furore poetico» di Onofrio è simile ad uno strumento andato fuori uso, inservibile, ai linguaggi apotropaici dello sciamano in preda all’estasi. È una macchina logomachica che tritura il nulla.
Veri e propri zombi, soltanto dopo morte le «tessere semantiche» di Marco Onofrio si presentano come possibilità eventuale di una posizione di potenza dell’«io». Non sarebbe azzardato affermare, in generale, che tutta la poesia veramente significativa del post-moderno sia «cannibalica» e totemica fin nelle sue ultime fibre, nella misura in cui essa si nutre di un mondo già semantizzato e strutturato.
La poesia algida ed ilare, post-sacrale del “Dopo il Novecento”, rivela la propria vera natura di discorso testimoniale dell’impotenza del «soggetto» di cui è spia, in questo libro, un certo impiego dell’iperrealismo disseminato a piene mani. C’è iperrealismo perché c’è un eccesso di reale.
articolo di Giorgio Linguaglossa
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