“Scavalcamenti di campo“, così li chiama Vito Zagarrio, “indizi di una deroga dalla grammatica del linguaggio hollywoodiano“: paradigma fra i più convincenti per una lettura complessiva dell’opera di John Ford, al quale è dedicato il volume omonimo della Marsilio, che prosegue nella pubblicazione di monografie di grandi registi; questa sul cineasta americano del Maine segue il libro dedicato a Bernardo Bertolucci.
Anche qui al saggio introduttivo del curatore (Lucilla Albano) fanno seguito saggi specifici dedicati alle opere principali. Zagarrio è impegnato con “Ombre rosse”, il film forse più noto do Ford, lavoro che gli consente di mostrare come la sua opera sia un caso esemplare “del testo classico hollywoodiano” e insieme una riscrittura dall’interno delle regole e modalità che lo costituiscono (nonché dei valori della stessa società americana).
Certa rude compostezza probabilmente a suo tempo ha nuociuto al giudizio sul regista, cui la nuova critica europea di metà secolo preferiva Hawks – così la professione di anti-intellettualismo non convinceva del tutto una parte degli studiosi del vecchio continente. A distanza di anni, tutto è stato riportato nei solchi di un canone abbastanza consolidato, in cui il giovane assistente di Griffith è stato riconosciuto come padre di un genere tutt’altro che corrivo o secondario, il western, nonché artefice di una scrittura filmica sobria, asciutta, ma compatta nel lasciare pochissimo spazio di intervento alle manovre successive del montaggio. Parliamo del cut in the camera, modalità operativa per cui nel girato v’è pochissimo oltre le inquadrature necessarie, così il punto di vista è ben determinato in partenza dalla macchina presa: per evitare, diceva lo stesso Ford, che “i committenti prendano il controllo su quello che gli lasci”. Come ricorda la Albano, fu Truffaut, le cui intuizioni avevano la felicità di chi è mentalmente sganciato da eccessivi o rigidi rovelli ideologici, a individuare nel cinema di Ford quella sorta di “regia invisibile” che faceva coincidere l’occhio della macchina da presa con quello dello spettatore, un procedimento che avvicinava i suoi film all’arte narrativa di un Maupassant. Tutto questo non ha nulla da spartire ovviamente con l’ingenuità o la semplicità: erano scelte stilistiche ragionate di un cineasta che negli Studios trascorse una vita, conoscendo tutti i passaggi di quella che giustamente è stata definita l’industria cinematografica, sapendoli maneggiare dall’interno. Cosa che gli consentì di affrontare diversi generi, dal western ai film di guerra, film storici e melodrammi, biopic e polizieschi, lasciando il segno del capolavoro in non pochi titoli (da Ombre Rosse a Sentieri Selvaggi, da Alba di Gloria a Liberty Valance). In un primo momento non aiutò la piena ricezione – reputazione di Ford in Europa nemmeno il suo sostanziale conservatorismo di patria, famiglia, eroismo…: sarebbe passato del tempo per scrollarsi il gravame di pregiudizi ideologici che impedivano di comprendere come un grande artista non è qualcuno che la pensa nel miglior modo possibile – ammesso che ne esista uno – ma caso mai chi riesce a dare dignità anche al punto di vista “peggiore” in virtù di un’onestà di sguardo che trova la sua forma e la rende immortale.
Lucilla Albano è professore all’Università Roma 3 e insegna Interpretazione e analisi del film. Ha pubblicato vari libri e saggi tra cui La caverna dei giganti, Pratiche 1992; Il secolo della regia, 1999 e Lo schermo dei sogni, 2004 con Marsilio; e Ingmar Bergman. Fanny e Alexander, Lindau 2009.
Seguono in appendice biografia e filmografia.
Autore: a cura di Lucilla Albano
Titolo: John Ford
Editore: Marsilio
Anno di pubblicazione: 2011
Pagine: 191
Prezzo: 12,50 euro