Melò, memoir, teatro, cinema, musica, poesia: ne “La vergine eterna“ il giapponese settantaseienne premio Nobel per la letteratura nel 1994, Kenzaburo Oe, non si (ci) fa mancare nulla. Dopo mezzo secolo di carriera letteraria e opere come Un’esperienza personale, Insegnaci a superare la nostra pazzia, Il grido silenzioso etc, Oe può permettersi un romanzo ricco, denso, qualche volta un po’ macchinoso, che si apre con l’immagine dello scrittore ormai anziano in compagnia dello sfortunato figlio Hikari (menomato mentalmente dalla nascita, entrato più volte nei suoi libri).
Presto s’imbattono in Komori Tamotsu, vecchio amico degli anni di studio giovanile, ora produttore cinematografico, personaggio non limpidissimo nonostante i modi affettuosi, che scopriamo ben presto aver avvicinato lo scrittore per un progetto importante ma non privo di risvolti inquietanti e torbidi. Vorrebbe che Oe scrivesse una sceneggiatura per lui. In realtà, il desiderio è dell’attrice Sakura Kogi, star hollywoodiana ma intimamente legata a un ideale passato mitico del Giappone che vorrebbe trasferire sullo schermo. Lei è il vero centro nevralgico del romanzo, il cuore della storia sebbene in fondo il libro ne contenga più di una.
Oe – che cerca di riannodare i fili di una memoria che sovrappone vicende personali e sociali, immagini biografiche ed esperienze professionali, cinema e scrittura, Oriente e Occidente (compreso il tentativo di un film che rileggesse il celebre racconto Michael Koolhass del grande Heinrich von Kleist in una chiave idonea a certa storia giapponese) – è lusingato dalla prospettiva non meno di quanto ne sia inquietato. Perché lui la donna la conosce, e sebbene il passato di quell’incontro conti ormai trent’anni, Oe non ha dimenticato quanto fosse stato sconvolto da un piccolo film amatoriale in cui era presente la giovane ragazza, adolescente in grado di turbare non meno della Lolita di Nabokov. Lo scrittore la ricorda, sulle note dell’ultima sonata per pianoforte di Beethoven e i versi della poesia Annabel Lee di Edgar Allan Poe, che cammina scalza nel verde della foresta di Shikoku – luogo pressoché archetipale della storia, sorta di giardino nero che sembra racchiudere la vita pulsionale e pre-morale con cui tutti i protagonisti debbono fare i conti – , e poi una scena in particolare, che inizia così: “La cinepresa stringe sul suo ventre scarno, poi scende giù verso l’inguine”. Un segreto è nascosto in quella storia, un’effrazione violenta che la ragazza, nonostante il successo futuro, non saprà mettere da parte.
Il racconto procede un po’ a fisarmonica, gli echi letterari sono vividi quanto quelli cinematografici, risuonano in un loop di rimandi interni all’arte dello scrivere, ed entrambi fanno da contraltare alla storia giapponese degli ultimi decenni. A una sua anima oscura che il narratore e la sua protagonista hanno bisogno di ri-guardare con coraggio per provare a salvarsi.
Kenzaburō Ōe è nato nel 1935 nell’isola di Shikoku, nel sud ovest del Giappone. A ventidue anni ha vinto il premio Akugatawa per il racconto Animale d’allevamento. Nel 1989 ha vinto il Premio Europalia, nel 1993 il Premio Mondello, nel 1994 il Premio Nobel per la letteratura. Tra le sue opere Garzanti ha attualmente in catalogo i romanzi Il grido silenzioso, Un’esperienza personale e Insegnaci a superare la nostra pazzia.
Autore: Kenzaburo Oe
Titolo: La vergine eterna
Editore: Garzanti
Anno di pubblicazione: 2011
Traduzione di Gianluca Coci
Pagine: 251
Prezzo: 18,60 euro