Ci sono i libri che si dimenticano, che si vogliono dimenticare e quelli che no, non si dimenticano affatto. Ci sono i libri che invece ti rimangono dentro dal profondo, e non sai neanche il perché. O forse lo sai: perché in quelle pagine c’è un qualcosa di apparentemente evanescente ma che è tutt’altro che impalpabile. È il caso di un libro, “La morte data“ (Manni, 2010), che ho avuto il privilegio di leggere.
Dico “privilegio” perché non tutti i buoni libri ti arrivano tra le mani. Vuoi per pigrizia del lettore, vuoi per una distribuzione nelle librerie che sappiamo come funziona, vuoi perché nella vita tante cose capitano per caso. E per caso ti capita anche di conoscere l’autore di quel libro. Anzi, non per caso: è lui che ti ha cercato, grazie all’uso migliore che della rete si possa fare.
Quel libro per me ha avuto quindi anche un volto, quello di Mario Massimo: un volto con i tratti delle buone maniere, quelle del meridione, dell’eleganza, dei modi di fare dei professori d’altri tempi. E come i professori d’altri tempi, ben intesi non per età ma per i modi d’approcciarsi, mi ha incantato: prima con la voce, poi con lo stile dei suoi scritti.
La prima volta che mi ha chiesto un parere sul libro, gli risposi come solo un alunno può fare: un banale “mi è piaciuto moltissimo”. Non solo, arrivo persino ad alcune ammissioni: “sono felice di aver trovato un libro che mi ha riportato a cercare parole sul dizionario, era da tanto che non mi capitava”.
L’ho sentito felice di questa confidenza.
Poi capita una presentazione prima dell’Estate: si parla molto dello stile, del linguaggio forbito, delle tecniche narrative. Della voglia di scrivere come si dovrebbe fare, non come molti libri e molti giornali di oggi ci hanno abituato. Ci penso e ci rifletto. Ne parlo con un amico che ha assistito con me alla presentazione e che, non avendo letto il libro, mi chiede: “sì va bene tutto ma di che cosa parla questo libro? Qual è la sua sostanza?”.
Ha ragione, diamine se ha ragione. Il libro di Mario Massimo non si può liquidare con lo stile, con le parole, con i significanti. C’è un significato in quel libro, anzi ce ne sono molti più di uno. E vanno cercati in tutti i racconti, in tutti i dieci racconti. Mi vengono in mente i grandi classici che ti fanno studiare a scuola: dieci è il numero perfetto, il ciclo che si chiude.
Un ciclo formato da storie che ti trattengono il fiato: dalla prima, “La morte data”, che dà il titolo alla raccolta di racconti, all’ultima “L’altro viaggiatore”, icastica come solo gli incontri sul treno sanno essere. Si va indietro nel tempo, tra epoche diverse, sfiorando anche il mito. Qualcosa del ragazzino di “Agnizione” lo portiamo già prima di leggerlo: è un qualcosa di già sentito, anche se in forme diverse. Ma non è un difetto, anzi. È qui che l’autore colpisce nel segno: una spennellata veloce che riporta in luce , con maestria, i nostri ricordi.
C’è molto sud, c’è il desiderio di vivere e la consapevolezza della nostra “finitezza”, c’è morte. C’ un gioco di rimandi ad una terra di tradizioni e di un Mediterraneo che ne sfiora i lembi ricordandone il passato ellenico. E c’è quel filo invisibile che è amore per il sapere che troppo spesso ci vergogniamo di chiamare filosofia.
Mario Massimo è nato nel 1947 a Foggia dove vive, ed è docente di Lettere presso un liceo.
Autore: Mario Massimo
Titolo: La morte data
Editore: Manni
Anno di pubblicazione: 2010
Prezzo: 18 euro
Pagine: 192