L’emigrazione, l’importanza delle radici, il sogno americano dei nostri nonni soli davanti al destino: e ancora il male di vivere, di famiglia e dell’avere due patrie ne “La fine” (66th and 2nd) di Scibona, ambientato a Cleveland.
Nipote di immigrati italiani negli USA, Scibona ci ha messo 12 anni a finire il libro, che gli è valso un posto tra i migliori scrittori americani sotto i 40 anni secondo la prestigiosa rivista New Yorker. “Non sono orgoglioso di averci messo così tanto tempo, ma non mi è dispiaciuto: quando ho iniziato ero molto giovane, e non c’è modo di imparare a scrivere, devi semplicemente provare a farlo” spiega.
La fine intreccia diverse storie di immigrati italiani a Cleveland, Ohio, la terra dell’industria pesante. Scibona scrive con un’attenzione quasi maniacale alla lingua, intrecciando le vite dei personaggi e cospargendo il romanzo di piccoli particolari apparentemente insignificanti che però le tengono tutte insieme componendo un affresco indimenticabile.
Com’è nato il suo libro?
“La genesi di un romanzo è sempre misteriosa: il mio è cresciuto pian piano, giorno per giorno, nei dettagli. Ma se nel conscio non avevo un progetto, nel subconscio avevo già forte l’idea di attingere all’esperienza dei miei nonni, che sono stati i miei modelli di vita. Erano tutti vivi quando ho iniziato a scriverlo, e tutti morti quando ho finito. I miei nonni materni erano di origine polacca, quelli paterni siciliani: tutti nati negli USA, ma attaccati al vecchio mondo, a un tempo che non esiste più.”
Scrive: “avere una famiglia è il contrario di morire, non avere una famiglia equivale a essere morti”. In questo sei molto italiano più che americano.
“Il peccato maggiore della cultura occidentale è che le famiglie sono diventate sempre più piccole e distanti: prima, vivendo in famiglie numerose, da bambini si avevano diversi modelli di vita. Questo per me è stato anche un’educazione alla narrativa, necessariamente corale: non sarei mai riuscito a scrivere un romanzo con uno, due personaggi.”
Lei sembra avere un’ossessione per la perfezione della lingua, l’uso delle metafore.
“Per me la metafora non è una tecnica, ma un modo di pensare. Quando devo descrivere una persona o una situazione, la mia mente automaticamente cerca delle assonanze con altre situazioni. C’è un punto nel libro in cui una dei protagonisti, la signora Marini, guarda un campo di grano, e sente in sè tutta la tristezza di non poter essere, in quanto essere umano, fino in fondo parte di quella natura. Ecco, qui ho usato la metafora: “come una perla in una torta”. La sua intelligenza è una perla preziosa ma fa soffrire.”
La signora Marini è forse il personaggio più affascinante: profondamente intelligente, tormentata, piena di difetti e molto umana. È riconducibile a qualcuno che lei ha conosciuto?
“È un’invenzione ma anche una commistione di qualità e difetti di persone anziane che ho conosciuto. All’inizio volevo avere solo questo personaggio di donna forte, grintosa, con le sue priorità e il suo egoismo. Ma il vantaggio di stare con un romanzo così tanto tempo è che i personaggi si evolvono e si è arricchita così anche la sua esperienza del mondo, la sua cultura, la sua intelligenza.”
I suoi personaggi sono in bilico tra Italia e America, passato e presente: tutti legati alle proprie origini, ma tutti a un certo punto soli, davanti a un destino che si creano da soli, con le proprie mani.
“È il problema emozionale del romanzo: tutti i personaggi sono parte di qualcosa di più ampio – famiglia, comunità – ma poi muoiono soli. Nella famiglia numerosa l’ identità veniva definita dagli altri. Non sono nostalgico ma le conseguenze negative di una cultura individualista si vedono nei momenti di crisi, come oggi. Prima si usciva insieme dalle crisi, facendo ognuno la propria parte.”
Prossimi progetti?Un nuovo libro, forse un film tratto da “La fine”?
“Per il film, rispondo “chissà”. Poi sto scrivendo tanti racconti e anche un romanzo. Ma io non sono uno scrittore metodico, vedo giorno per giorno. E se poi alla fine avrò scritto quattro libri o quindici, non conta.”
Salvatore Scibona, nato nel 1975 a Cleveland in una famiglia di origine siciliana, si è laureato all’Università dell’Iowa in scrittura creativa e lavora al Fine Arts Work Center di Provincetown. Dopo gli studi l’autore è venuto in Italia per conoscere il Paese dei suoi antenati, imparare l’italiano e fare ricerche per il suo romanzo. La fine è stato finalista nel 2008 al National Book Award e vincitore nel 2009 del Young Lions Fiction Award e del Whiting Writers’ Award.
Autore: Salvatore Scibona
Titolo: La fine
Editore: 66thand2nd
Anno di pubblicazione: 2011
Prezzo: 20 euro
Pagine: 389