Pubblicato la prima volta nel 1930, ritirato dalle librerie nel ’39, vede ora la luce in italiano un gran libro, “La paura” di Gabriel Chevallier, tradotto per Adelphi da Leopoldo Carra. Uno dei meriti della buona letteratura è farci tornare su qualcosa, un tema, un fatto del passato, un luogo della geografia che abbiamo frequentato o di cui viceversa non ci siamo mai occupati davvero, e scoprire quanto possa essere appassionante il suo racconto.
Non credo per esempio che siano moltissimi i lettori di vicende riguardanti la prima guerra mondiale – di sicuro la seconda ha goduto di più interesse negli scorsi decenni, per ragioni di cui non conta occuparsi in questa sede. Provate invece a leggere La paura. Preso in generale, il tema della guerra riassume concetti spendibili quasi sempre: orrore, ferocia, insensatezza. Sono termini che vengono alla mente con la stessa sacrosanta facilità per quasi tutte le guerre. E anche quello della paura lo è, sebbene nella prefazione all’edizione 1951 del romanzo l’autore ci tenga a sottolineare il fatto che mai prima la paura era stata confessata in questo modo, dichiarata e tematizzata finanche nel titolo a dispetto di qualsiasi coeva e trascorsa tronfia retorica del bellicismo, della forza e del coraggio – inutile dire che almeno nel campo di battaglia francese, quello dell’autore, più si sale di grado e più l’evidenza di quanto sia imbelle il potere, di quanto vili siano i superiori di grado, si fa potente.
Vero anche che le grandi scene del massacro, dei corpi mutilati, delle membra spappolate, del sangue e dei pidocchi e del marciume appiccicati ai corpi esausti dei militi potrebbero essere registrate in altri conflitti – epperò c’è uno specifico nel romanzo di Chevallier, il delirio per così dire sommario e abborracciato della Grande Guerra – un mondo intero in confusione, esaltato senza sapere bene perché (laddove la seconda risponde a una strategia unilaterale terribile ma precisa, il nazismo portando a compimento persino estetico il nazionalismo d’antan).
I capi delle due alleanze, così come vengono supposti dal racconto che poi scende per li rami delle gerarchie fino alle sprovvedute e timorose e impreparate fanterie, sembrano omaccioni di cartapesta, boriosi e inconsistenti, avvitati in un sogno di grandezza purificatrice improbabile e farsesco. La tragedia difatti non gli appartiene: la tragedia è in basso. Riguarda i poveri cristi e si chiama trincea. Qui il racconto di Chevallier, dopo esser passato dal resoconto della stupida euforia che attraversò le strade parigine all’annuncio del conflitto, dalle scene tragicomiche di un addestramento alla carlona in cui è evidente che come sempre a “emergere” sono i peggiori, selezionati sempre e solo in virtù dell’obbedienza che garantiscono, ecco, una volta al fronte, il racconto assume una forza impressionante. La prosa abbandona (ma non del tutto) quella che lo stesso autore chiamò anni dopo “insolenza”, l’insolenza della giovinezza che vede davanti a sé un teatro ridicolo prima ancora che drammatico e non può non riderne. Pagina dopo pagina si mette al servizio di una narrazione tentacolare cui non sfugge nulla: l’orrore, innanzitutto, nelle cui immagini a un certo punto da ridere non resta più niente. L’entusiasmo idiota dello scoppio del conflitto ha lasciato il campo a una totale umiliazione del genere umano: attraversano i camminamenti come ratti, questi soldati, strappano oscenamente alla vita qualsiasi momento nel timore che possa essere l’ultimo.
“Hanno lo sguardo dei cani che stanno a terra davanti a un frustino” scrive Chevallier. La paura detta legge a qualsiasi comportamento. Non v’è nulla d’eroico: “Scavare latrine, ramazzare alloggiamenti, riempire pagliericci”. Quando il pericolo si avvicinava “ci veniva la pelle d’oca all’idea di essere solo una palata di carbone destinata ad alimentare quella fornace”. Mentre “immonde famiglie di pidocchi” infestano questi corpi traumatizzati dalla fatica e dalle ferite, intorno la “regione era devastata dal passaggio delle truppe, dai solchi dei carreggi, dalle scorrerie; coperta di rottami e marciume”. Il narratore – un alter ego dell’allora giovanissimo Gabriel – non si risparmia e nulla risparmia al lettore. La miseria degli effettivi è senza possibilità di riscatto. Forse il lettore fa ancora in tempo, a salvarsi, mentre resta stupito davanti alla capacità dello scrittore di fargli percepire con i sensi allertatissimi la tangibile, tattile mostruosità degli eventi.
Autore: Gabriel Chevallier
Titolo: La paura
Editore: Adelphi
Anno di pubblicazione: 2011
Prezzo: 20 euro
Pagine 327