Di scrittori così non ne nascono a dozzine, magari di imitatori sì, ma questo è un altro discorso. Hanno scritto che per gli estimatori appassionati di un autore grandissimo come il sulfureo Manganelli trovarsi fra le mani degli inediti fa un certo effetto.
“Ti ucciderò, mia capitale” (Adelphi, 2011) è il titolo scelto dall’editore per questa raccolta.
Perché parliamo di racconti, un profluvio di storie e microstorie, avventure mentali, divagazioni angosciate, vagheggiamenti lirici o grotteschi, brevissime peripezie, tour de force espressivi che si intensificano via via che dal 1940 al 1982 Manganelli disciplina (si fa per dire) la propria scrittura.
Salvatore Silvano Nigro, curatore di questa silloge abbondante – come se il barocchismo, cifra che probabilmente non esaurisce la straordinaria esperienza letteraria di Manganelli, fosse destinato, per necessario e non fortuito destino, a insinuarsi anche negli anfratti di solito minuscoli delle scoperte, delle trouvailles di un autore del quale si pensava di conoscere tutto – definisce “Laboratorio” questa messe di scritti. Alcuni usciti su giornali o riviste, molti del tutto inediti. Nel ’40, quando scrisse i primissimi racconti presenti nel libro, Manganelli non era ancora ventenne. L’angoscia è già palpabile, ha già i tratti metafisici di un’inutile domanda posta agli dei – è già carica dello smarrimento di chi non può che tentare di difendersi con il linguaggio dall’insensatezza del mondo. Di chi teme di precipitare nella follia e la tiene a distanza con un’armata di Laboriose inezie. Non stupisce dunque che l’esercizio del paradosso fosse già un gioco facile per lui, da subito, e venisse affrontato con l’agio proprio del fuoriclasse.
Da un racconto all’altro, il pensiero del nulla che lo irretisce e ne mina seriamente l’equilibrio, più che detto o riferito come un triste traguardo della speculazione dell’intelletto, viene disarticolato, smembrato e ricostruito attraverso l’addestramento di una lingua sbalorditiva e mirabolante che sembra riesca a farne altro, sottoposta com’è, la nozione, a una sorta di fenomenologia apofatica.
Ecco allora lo spettacolo di una prosa che puntella il neghittoso, l’inutile, il fatuo grazie a una proliferazione irripetibile di lessici desueti, di schiere espressive imperiali, di enumerazioni instancabili che però, quanto a unità di lemma o almeno di sintagma, sono bastevoli per stendere il lettore più smaliziato con colpi lapidari.
L’abitudine agli accostamenti inauditi, all’aggettivazione insolita resta per l’ennesima volta infilzata in contropiede da uno scrittore ancora, e dopo non poche letture, capace di sorprenderti L’eccentricità, questo libro lo conferma, in Manganelli è coltivata con una facilità di manovra difficilmente riscontrabile altrove; la vertigine che raggiunge, pur assomigliando all’accanimento di un esercizio sistematico, ha in sé il dono di un’acribia naturale, tanto critica quanto inventiva, o inventiva perché critica: da lì il sospetto che il crocevia di fughe scritto nel cosmo di brogliacci di Manganelli non voglia essere un barocco invito ad abbandonare il mondo ma la più maniacale ed esatta ricognizione che uno scrittore ci possa elargire, sempre che nella cosiddetta realtà si includa il repertorio delle sue negazioni: allucinazioni, incubi, inganni, abbagli, miraggi, stravaganze e depistaggi. L’elenco finirebbe con l’esaurirsi del vocabolario – e forse nemmeno così, se dietro l’errore di battitura della macchina per scrivere può nascondersi l’intuizione non tanto o solo del neologismo rivelatore, quanto di presenze inquietanti che sono l’ennesimo stimolo per una nuova deviazione. Refusi come “insetti malinconici”, li definiva, ma chissà che “i frillamenti”, usciti per sbaglio dal suo compulsivo diteggiare non nascondessero una nuova cosa da pensare – una piccola cosa che potesse mettere a repentaglio l’universo già pensato prima.
Autore Giorgio Manganelli
A cura di S.Silvano Nigro
Titolo: Ti ucciderò, mia capitale
Editore Adelphi
Anno di pubblicazione: 2011
Prezzo: 25
Pagine: 376