Franchi su Lankelot ha scritto che “Stanze nascoste“, libro di Derek Raymond traduzione per Meridiano Zero di Federica Alba e Pamela Cologna, è “un ibrido tra un memoir, un potente trattato di estetica e genetica del noir e un pamphlet etico-politico.” La definizione plurale rende giustizia di un libro in cui il noir è al centro delle riflessioni però addensate con puntigliosa acribia su argomenti disparati, dai ricordi di famiglia ai ritratti archetipici di figure umane decisive per comprendere l’essenza del noir stesso, e non poche considerazioni sull’asprezza dell’esistenza.
Chiaramente un uomo di parte, Derek Raymond, quella dei perdenti (nonostante le origini agiate, volutamente abbandonate per comprendere qualcosa di quello che c’era fuori del castello di famiglia nel Kent), che ha interpretato però non come usa nei romanzi d’oggi da noi spargendo lacrime noiosissime per velare il cinismo di fondo, ma spingendo la ricerca in direzione dell’oscuro sino a fare del noir una metafisica. La parte, questa parte, coincide con la strada. Lì Raymond attinge i suoi materiali (un mondo terribile, la strada, “come quello della guerra”). “Pornografia, prostituzione, frode e crimine, povertà, violenza, disperazione” – per capirci.
Scrive Raymond che quella del noir, così declinata, “è una vocazione, non una carriera”. Sono pagine di alcuni decenni fa, non potendo immaginare lo scrittore inglese che in un paese straordinariamente incline alla farsa – il nostro – sarebbe successo il contrario ovvero che il noir (o il giallo, il giallo-noir, il pulp, il giallo-pulp, il giallo-splatter, il pulp-noir, il verdo-nero, il thriller-noir, il thriller-splatter, il post-noir e via sciorinando sciocchezze) sarebbe diventato un genere letterario truccato con pochi espedienti e/o un sovraccarico ideologismo messo davanti all’opera per farla passare come buona e giusta a prescindere. Non poteva sapere Raymond che questa roba in Italia avrebbe fatto la fortuna di qualche decina di scrittori privi di qualsiasi talento e finanche di cose interessanti da proporre se non un barbosissimo e furbesco vittimismo che ha preteso per quindici anni di denunciare l’ostracismo a suo carico. Uno scrittore dai toni talvolta soverchi, Derek Raymond, e tortuoso nell’intreccio narrativo, la cui cupezza di fondo non sempre è parsa desiderabile ma rivolta ossessivamente a comprendere la natura umana.
E questo cambia le cose. Il fine ultimo della scrittura per Raymond è sempre la ricerca della verità. “La sfida – scrive – sta nell’analisi dell’orrore della vita reale”. Ecco la possibile chiave di volta per comprenderlo. In Stanze nascoste l’autore di Come vivono i morti paragona i boriosi agli assassini. Queste persone velenose, pericolose, bisognose di attenzioni e crogiolate nell’adulazione altrui sono in potenza figure tragiche (per gli altri, s’intende). Quando diventano personalità pubbliche è evidente come l’accentramento patologico sul proprio potere apra scenari rovinosi: i dittatori dovrebbero insegnarci qualcosa. Pertanto, l’autore di noir non può liquidare un borioso con una nota di costume, certe caratteristiche morali essendo indiziarie di una possibile catastrofe sociale. Si dirà, un po’ enfatico? Può darsi. Epperò è un metodo, quello di Raymond, non una passerella di detectives – vi sembra poco?
Derek Raymond (pseudonimo di Robert William Arthur Cook), Londra 1931 – 1994. Tra le sue opere: Come vivono i morti, Il mio nome era Dora Suarez, Il museo dell’inferno, Atti privati in luoghi pubblici.
Autore: Derek Raymond
Titolo: Stanze nascoste
Editore: Meridiano Zero
Anno di pubblicazione: 2011
Prezzo: 16 euro
Pagine: 335