Non sempre il curioso romanzo di Bruno Osimo, “Dizionario affettivo della lingua ebraica” (Marcos y Marcos, 2011), è così divertente, altrimenti sarebbe un capolavoro. Osimo fa il traduttore (dal russo), ma non si limita a questo; lui l’arte della traduzione la insegna, pubblica manuali sulla traduzione e ha fatto della stessa la chiave d’accesso alla realtà, una via per orientarsi nel mondo – almeno, il protagonista del suo libro – “ebreo tra i non ebrei, diversamente ebreo tra gli ebrei.“
Un breve saggio della scrittura di Bruno Osimo: ecco un brano. “Dopo avere fatto tantissimi lavori – tra cui l’autista a New York senza avere la patente e senza saper guidare – Franco è finito a fare il contabile in California per una multinazionale petrolifera che aveva una politica antisemita, quindi, paradossalmente, dopo essersi salvato dal fascismo e dal nazismo in Europa, in America ha dovuto nascondere per tutta la vita fino alla pensione di essere ebreo sul posto di lavoro per evitare di essere, non sterminato, semplicemente licenziato. L’azienda per la quale lavorava aveva una politica discriminatoria verso gli ebrei dettata dalle splendide relazioni con le famiglie regali arabe.”
Sebbene sia la storia di una vita e di un’epoca in quarantacinque voci, al centro del libro c’è la madre del protagonista. Vero che in ebraico papà si dice aba; e che dunque, la prima voce sia proprio papà; eppure, prima che il narratore articoli l’opera attraverso l’intero dizionario, si chiarisce che è la madre il centro nevralgico di tutto. Difatti, è lei che incontra un’altra donna ebrea che le dice: “Mio figlio, pur di parlare di me, va dallo psicanalista quattro volte la settimana“, e la signora risponde: “Mio figlio, pur di parlare di me, ha scritto un libro“.
Protagonista lo è perché è sua l’azione fondativa per eccellenza: il dar voce alle cose, il nominarle. Infatti, prima di comporre la storia attraverso le quarantacinque voci di un dizionario paradigmatico, occorre lavorare con i materiali di una lingua basica per paradosso straniera: materna sì ma nel caso specifico assai bizzarra. Questa mamma difatti parla il “tampònico”, che è una lingua utile ad attutire la violenza della verità e la brutalità della vita, che allontana la paura, che tiene in piedi realtà complesse e periclitanti diminuendone al massimo la forza d’urto. Crescere con una lingua così costituisce un esercizio di allenamento al compromesso, un addestramento alla mediazione, ciò che consente al narratore di infilarsi nelle intercapedini delle cose, di lavorare per osmosi alle loro influenze reciproche, di leggere con distacco spiritoso avventure di parenti assortiti, di fughe verso il resto d’Europa e gli Stati Uniti.
Una lingua propedeutica alla dissimulazione, al mascheramento, forse all’imbroglio – il ragazzo è costretto a infilare i gustosissimi panini al salame nella borsa di nascosto. Impara ad adattarsi, impara a salvarsi. In fondo, sebbene perplesso, sebbene distaccato, impara un’arte che ebraica lo è ontologicamente. E cosa meglio che scriverne?
Bruno Osimo traduce dal russo, insegna traduzione, pubblica manuali sulla traduzione e studia l’ebraico per ricavarsi un tempo sospeso, fine a sé stesso. Vive a Milano con la sua famiglia e va a correre all’alba ogni mattina, perché intanto che vive, crede di doversi preparare alla sua Fuga: la fuga fa parte della sua identità.
Autore: Bruno Osimo
Titolo: Dizionario affettivo della lingua ebraica
Editore: Marcos y Marcos
Anno di pubblicazione: 2011
Prezzo: 16 euro
Pagine: 303