Domenico Lopresti, protagonista del romanzo “Noi credevamo” (Oscar Mondadori 2010) di Anna Banti, scrive le sue memorie “ho veduto, da vivo, il definitivo tramonto dei miei tempi… ”.
Nella provinciale Torino della fine del XIX secolo il gentiluomo calabrese Domenico quasi di nascosto dalla sua famiglia redige il bilancio di tutta una vita spesa in nome di una sola parola: coerenza.
Il settantenne Lopresti si ritrova a vivere in una città che non ama “odio i suoi impiegatucci, i suoi militari, i suoi uomini politici” e abita in “un palazzo arcigno” che lo opprime, con “mura sorde come una fortezza”, volontariamente esiliatosi in “una camera di luce fredda”. Domenico ha sposato Marietta che lo assiste devotamente e dalla quale ha avuto in tarda età due figli: Luigi e Teresa, torinesi per necessità ma “napoletani nel cuore”. Nel suo memoir egli affida alla carta i suoi pensieri, le sue amarezze e disillusioni, i suoi perduti ideali di gioventù di un’esistenza vissuta combattendo per la sua Patria. Domenico Lopresti d’incrollabile fede repubblicana dopo aver partecipato alle battaglie risorgimentali “ho cospirato con ebrezza, mi hanno preso, ho veduto la forca e qualcosa peggiore della forca”, aveva capito che la sua missione rivoluzionaria era fallita. L’Italia non potrà mai avere un patrimonio di memorie storiche condivise, riflette. Domenico chiuso nella sua abitazione ha compreso che il Paese che è nato con l’Unità d’Italia non è affatto quello per il quale ha lottato e che anelava fin da giovane. Dove sono finiti i sogni di gloria di assistere a una nazione libera, moderna e repubblicana?
Ecco il vulnus originario secondo la scrittrice che attingendo ai ricordi del nonno garibaldino fa comprendere al lettore che l’Unità d’Italia fu un’impresa complicata, lenta e difficoltosa. L’obiettivo primario di liberare la Penisola dalla dominazione straniera doveva avvenire tramite i Savoia, quindi in pratica sostituire la monarchia asburgica con quella sabauda oppure come auspicavano Mazzini e Garibaldi tentare di costruire uno Stato repubblicano, moderno, democratico?
Anna Banti fiorentina di nascita e calabrese di origine pubblicò Noi credevamo nel 1967 per Mondadori. Il libro è stato ora rieditato in occasione dell’uscita del film omonimo di Mario Martone, al quale il regista napoletano si è ispirato. In questo romanzo storico l’autrice rievoca le aspirazioni, gli ideali e i ricordi del nonno calabrese mazziniano a lungo imprigionato dai Borboni. Lopresti rivoluzionario senza gloria “nella prigione, dove mi sono serrato volontariamente” ripercorre la sua attività politica vissuta da clandestino, i dodici anni di carcere oppressivo passati nelle galere borboniche di Procida e Montefusco, l’impresa dei Mille di Garibaldi fino ad arrivare all’impiego nelle dogane del nuovo Regno d’Italia. Dalle pagine emergono figure indimenticabili come il carceriere Gennaro o la figura di aristocratico di Don Sigismondo di Castromediano. Nel saggio Il Risorgimento scritto con rabbia di Enzo Siciliano che fa da postfazione al volume uscito per la prima volta su L’Espresso del 23 aprile 1967, il compianto scrittore e critico letterario definisce Lopresti come “un democratico innamorato di Garibaldi: uno di quelli che credettero nella concreta possibilità di una evoluzione positiva della rivoluzione italiana”.
Con uno stile raffinato ed elaborato e con un linguaggio a volte arcaico l’autrice tratteggia raccontando in prima persona le amarezze di un uomo consapevole di non essere stato in grado di portare a compimento una missione eroica e storica: creare una Patria moderna con un popolo nato da una alta e nobile identità collettiva. “Perdemmo Roma alla caduta della Repubblica Romana: e fu per sempre”. Alla migliore gioventù di allora non piacque che “ai Savoia, altrettanto e più bigotti dei Borbone” fossero state affidate le loro sorti. Un romanzo scritto quasi quarant’anni fa ma attualissimo, che merita di essere riscoperto oggi che stanno per iniziare i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Anna Banti nota alle cronache letterarie come narratrice di complesse storie di personaggi femminili come la pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi sorprende con la cronaca del diario intimo di Domenico dove per sua stessa ammissione la speranza “è per sua natura illogica” perché “frutto della disperazione”.
“Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo… ”.
Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti) nacque a Firenze il 27 giugno 1895 e morì a Ronchi di Massa il 2 settembre 1985. Scrittrice e traduttrice, sposò nel 1924 il critico d’arte Roberto Longhi con il quale fondò la rivista Paragone, della quale diresse a lungo la sezione letteraria. Tra i suoi libri più noti Artemisia (1947), Le donne muoiono (1951) Premio Viareggio e i racconti raccolti in Campi Elisi (1963). Celebri e bellissime anche le traduzioni dei classici inglesi e francesi tra cui Thackeray, Colette, Fournier, Austen, Woolf e la curatela del Meridiano dedicato a Defoe.
Autori: Anna Banti
Titolo: Noi credevamo
Editore: Oscar Mondadori
Anno di pubblicazione: 2010
Prezzo: 9,50 euro
Pagine: 348