Zygmunt Bauman, nel suo recente lavoro “Modernità e ambivalenza” (Bollati Boringhieri, 2010), parla di una delle maggiori peculiarità dell’epoca moderna: il suo rapporto con l’ambivalenza. Lo studioso ha a lungo descritto la modernità nelle sue linee fondamentali come nei suoi recessi e nelle sue pieghe. Sottolineando ripetutamente come l’aspetto più essenziale dell’esistenza moderna sia il suo essere fondata sul progetto, sulla gestione-manipolazione-ingegneria della realtà.
Conclusione sintetizzata in una delle sue metafore più celebri: il passaggio del modello di uomo da “guardiacaccia” (preservatore o al massimo manutentore di un ordine preesistente) a “giardiniere” (creatore di un ordine che altrimenti non esisterebbe).
In questo studio Bauman si concentra tuttavia su un’altra questione, a quella collegata: sull’esigenza di creare un ordine necessario (tramite il quale sconfiggere il caos), la quale trova soddisfazione nel tentativo a oltranza di rimuovere ogni ambivalenza: “la pratica più tipicamente moderna […] è costituita dallo sforzo di estirpare l’ambivalenza: uno sforzo di definire con precisione, e di cancellare o eliminare tutto ciò che non si riesce a definire o non si lascia definire con precisione”.
Atteggiamento destinato a sfociare nell’intolleranza: conseguenza diretta di una inclinazione a porre di continuo e dappertutto limiti, definizioni, frontiere, classificazioni. Se ordine dev’essere, infatti, non potrà che essere “unico”: un solo pensiero politico (democrazia), un solo pensiero economico (capitalismo liberista), ecc. In una parola: globalizzazione. La quale non teorizza affatto, dunque, la libertà, l’integrazione e la ricchezza per tutti, bensì al contrario l’esclusione e l’emarginazione (ovvero l’assimilazione) di tutto ciò che è “diverso”.
Un compito perenne, frustrato dal quotidiano scontrarsi con la novità, l’esuberanza, la naturale eterogeneità del reale. L’umanità è posta di fronte a un compito impossibile: e ciò, piuttosto che conferire interesse e dignità al futuro, non fa altro che svalutare il presente, rendendolo sgradevole. La condizione moderna è dunque uno stato in cui l’uomo non riesce a trovare pace, il cui operare rievoca il miti greco di Sisifo: quanto più infatti si spinge in profondità nel proposito di eliminare l’ambivalenza, tanto più si trova di fronte alla connaturata ambivalenza delle cose, onnipresente, intrinseca, ineliminabile. E la modernità stessa finisce per nutrirsi, paradossalmente e sfacciatamente, di questa contraddizione: finché il nemico è vivo, infatti, essa può giustificare la sua lotta, il suo modo di procedere, la sua stessa esistenza.
Meccanismo che Bauman illumina con considerazioni che partono dalla letteratura, dalla filosofia, dal cinema, dal pensiero religioso e, ovviamente, dalla sociologia. Con la sua consueta, densa, vibrante leggerezza.
Zygmunt Bauman (Poznán, 1925), di origine ebraica, all’invasione tedesca della Polonia è fuggito con la famiglia in Unione Sovietica. Rientrato in patria alla fine della guerra, ha studiato sociologia e filosofia all’Università di Varsavia, dove poi ha insegnato fino al 1968. In quell’anno ha perso l’insegnamento, in seguito alla sua presa di distanza dalle posizioni antisemite del Partito comunista polacco, ed è riparato all’estero. Ha ottenuto la cattedra di Sociologia all’Università di Leeds, di cui è dal 1990 professore emerito. Gran parte della sua opera è tradotta in italiano. Per Bollati Boinghieri ha pubblicato La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti (1992). Nel 1989 ha vinto il Premio Amalfi e nel 1998 l’Adorno – Preis.
Autore: Zygmunt Bauman
Titolo: Modernità e ambivalenza
Editore: Bollati Boringhieri
Anno: 2010
Pagine: 374
Prezzo: euro 25,00
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