“Il linguaggio della Dea” (Venexia, 2008) di Marija Gimbutas è stato recentemente ripubblicato con traduzione italiana di Selene Ballerini. Testo fondamentale, che ha reso famosa in tutto il mondo la grande archeologa di origini lituane, scomparsa nel 1994, costituisce un vero caposaldo non solo per gli studiosi di archeologia ma per tutti i lettori che aspirano a ritrovare le antiche radici culturali del vecchio continente.
Suo principale merito è di essere stata un’opera pionieristica nel far riemergere dall’oblio le testimonianze del ruolo centrale svolto dalla donna nelle società primitive di un lontano passato di stampo matriarcale, che può risalire fino al Paleolitico Superiore e quindi alle prime forme di rappresentazione artistica prodotte dall’uomo.
Pubblicato per la prima volta nel 1989 negli Stati Uniti, dove la Gimbutas si era trasferita dal 1949 come rifugiata politica, il libro è diventato una pietra miliare nel campo della ricerca archeologica e degli studi della mitologia antica, rivoluzionando l’approccio all’archeologia preistorica e protostorica ed ampliando le prospettive sulle origini della cultura occidentale, ma, soprattutto, riportando alla luce il ruolo fondamentale del “femminile” nella storia.
Il volume esamina un ampio repertorio di oltre duemila manufatti, in parte frutto degli scavi condotti dalla stessa Gimbutas nel bacino del Danubio, nel nord della Grecia, in Italia, a Malta. L’attenta analisi dei reperti – accompagnata da un ricco corredo di disegni, foto, mappe, tavole cronologiche – ci porta alla riscoperta di una grande varietà di immagini, figurazioni, simboli, incisi o dipinti sulle pareti di grotte e ripari preistorici, su statuette, vasi e monili in pietra, osso, avorio, terracotta.
I simboli più ricorrenti sono costituiti da meandri, spirali, triangoli, vulve, linee ondulate, cerchi, coppelle, semi, germogli di piante, uova, simboli astrali (sole, luna, stelle) oltre a numerose rappresentazioni animali, più o meno stilizzate, quali serpenti, civette, anatre, avvoltoi, orsi, scrofe, cinghiali, cani, cavalli, tori, pesci, ed una grande varietà di figure umane e di esseri ibridi, talvolta di difficile interpretazione. Tutti questi segni e simboli sembrano riferirsi costantemente al culto di una Grande Dea, dispensatrice di vita, espressione della terra che si rinnova ciclicamente, simbolo della fertilità e delle energie che regnano nell’universo, ma anche signora della morte, che è l’altro principio, opposto ma complementare, della vita stessa.
La Grande Dea viene rappresentata in forme e dimensioni variabili, a partire dalle statuette preistoriche note come le ‘Veneri paleolitiche’, fino alle rappresentazioni di epoca storica a noi più note, di cui quel raffinato linguaggio simbolico riscoperto dall’archeologa lituana costituisce la migliore chiave interpretativa, che riesce a far luce su un mondo ritenuto ormai perduto, rivelando le lontane radici cultuali del nostro continente.
Come ha scritto Sabatino Moscati, “…l’opera della Gimbutas è una costruzione imponente, che in larga parte convince e stimola la riflessione, determinando un notevole progresso negli studi: questi, in futuro, dovranno sempre confrontarsi con l’immagine della Grande Dea, dominatrice del mondo preistorico“.
La sua opera costituisce così un forte contributo alla riscoperta di una cultura in cui il matriarcato e il ruolo centrale della donna davano stabilità alle società primitive. Il culto della Grande Dea è stato dominante nell’Europa del Neolitico, tra VIII e IV millennio a.C., in un’Europa abitata da popoli che risiedevano in villaggi, praticavano l’agricoltura, non conoscevano la guerra e vivevano in armonia con la natura, forse proprio grazie al fatto che le donne avevano un ruolo primario nell’organizzazione sociale e nella vita religiosa.
Una vita serena che cessò tra IV e III millennio a.C. quando cominciarono ad arrivare dall’est orde di cavalieri armati, portatori di una cultura definita ‘indoeuropea’, che conquistarono quella società pacifica e indifesa e vi sovrapposero la loro religione e le loro divinità di tipo patriarcale. Così le credenze, i miti, la religione e l’arte della preistoria e della protostoria europea, nonostante l’esiguità delle fonti relative a queste età, possono essere meglio conosciute e comprese grazie alla eccezionale mole di lavoro e alla cospicua documentazione raccolta dalla Gimbutas, cui si deve tra l’altro il merito di aver impiegato una metodologia di ricerca ‘multidisciplinare’, che coinvolge diverse discipline tra cui – oltre l’archeologia – l’etnologia, la linguistica, la mitologia comparata.
Si deve alle intuizioni di quella che lei stessa ha definto ‘archeomitologia’, se si è potuto constatare che molte credenze e miti dell’antichità hanno potuto sopravvivere nel tempo, giungendo talvolta immutati fino ai nostri giorni.
Marija Gimbutas, nata a Vilnius in Lituania nel 1921, fuggì dal suo paese durante l’invasione russa e si laureò nel 1946 in Germania, a Tubinga. Nel 1949 si trasferì negli USA, dove lavorò ad Harvard come esperta di Preistoria dell’Europa Orientale e poi a Los Angeles come docente di Archeologia Europea. È autrice di oltre 20 opere e centinaia di pubblicazioni su argomenti che spaziano dalla preistoria e mitologia dell’Europa antica alla religione della Grande Dea ed alle origini delle culture indoeuropee.
E’ morta a Los Angeles nel 1994.
Autore: Marija Gimbutas
Titolo: Il Linguaggio della Dea
Editore: Venexia
Anno di pubblicazione: 2008
Prezzo: 36,00 euro
Pagine: 412 (XXIV+388)
* I diritti dell’articolo sono dell’Arch. Giuseppe Maiorano