Welfare, intervista a Folgheraiter

welfareSaggi di Welfare” (Erickson, 2009) è il libro di Fabio Folgheraiter che raccoglie una serie di saggi preparati per convegni e seminari, a cui l’autore ha partecipato negli ultimi due anni. Lo scrittore descrive lo stato dell’attuale disagio del welfare e offre riflessioni sull’immediato futuro.
Nella prefazione al suo libro, lei sostiene che “la vera qualità del welfare è la qualità del vivere associato delle persone”. Cos’è la “rete” e perché nel campo del welfare il “lavoro di rete” risulta fondamentale?
“La tesi del libro è semplice e intuitiva per le persone comuni, può essere invece più complicata da capire, paradossalmente, per gli operatori professionali. Negli ultimi decenni nei servizi sociali i professionisti hanno ritenuto che il welfare fosse le loro prestazioni e le loro terapie. Nulla da dire sul fatto che i servizi organizzati siano molto importanti, ma ritenere che siano loro che producono lo “star bene” delle persone è un errore di quelli davvero madornali. Nel libro dico che anche quando ci sono delle fragilità o dei disagi esistenziali pesanti, sono innanzitutto le persone che vivono questi problemi le forze primarie che generano il welfare; nel momento in cui queste persone si attivano e si relazionano costruttivamente, mosse dalla volontà di migliorare la loro esistenza, esse, anche senza volerlo o senza accorgersene, danno vita a reti umane capaci di sprigionare energia e senso. Il lavoro di rete è l’azione di un operatore che si mette a disposizione di queste reti e le aiuta nel loro percorso di ricerca del proprio bene. Le prestazioni dei professionisti vanno a buon fine e servono a qualcosa solo se si imbattono in queste relazioni che funzionano, sia spontaneamente sia perché aiutate, altrimenti si tratta di tempo e denaro sprecati.”

Quale peculiarità socialmente vincente riscontra nei gruppi di auto/mutuo aiuto?
“I gruppi di auto/mutuo aiuto sono uno dei tanti esempi di quelle reti umane di cui ho parlato ora. La loro caratteristica vincente, se così si può dire, è la reciprocità ovvero la parità di status tra i membri. Essi sono persone che condividono una stessa condizione esistenziale (ad esempio, avere problemi con l’alcol o le droghe, aver subito una perdita, ecc.) e quindi per definizione sono tutti nel gruppo per la necessità di ricevere aiuto e allo stesso tempo ci si aspetta che essi aiutino i loro simili. Non abbiamo più l’asimmetria per cui da una parte c’è un presunto sapiente capace di risolvere e dall’altro un disagiato che non sa fare altro che elemosinare una soluzione.”

Cosa s’intende per capitale sociale e per lavoro sociale?
“Il capitale sociale per come lo si intende in sociologia è il possesso di un valore dato dalle relazioni sociali di cui una persona dispone, o più in generale la qualità delle relazioni tra le persone di un dato territorio. Le relazioni sono buone quando le persone hanno fiducia le une nelle altre e si aprono ai contatti e ad intraprendere azioni comuni, per soddisfare comuni interessi o bisogni. Per “lavoro sociale” io intendo il campo delle cosiddette professioni sociali, i mestieri di quegli operatori che, per quanto detto sopra, si impegnano non tanto a distribuire prestazioni o assistenze dirette, ma cercano di fornire supporti e basi affinché  le relazioni si attivino e siano sensate nel ricercare le loro soluzioni individuando le proprie strade.”

“Sapere è potere”. Nel suo libro cita il famoso slogan baconiano, distinguendo tra sapere esperienziale e sapere oggettivo: in che modo le due forme di conoscenza possono intervenire nel campo del welfare?
“Il sapere esperienziale è quello posseduto da chi ha fatto esperienza diretta di una certa cosa, il sapere oggettivo o esperto è quello di chi sa per aver studiato sui libri. Io posso conoscere l’alcolismo, ad esempio, perché bevo o perché mia moglie beve e conosco per questo i disagi e le sofferenze che l’alcol provoca. Oppure lo posso conoscere perché ho studiato che cosa sono le dipendenze all’università. Sono due tipi di saperi molto diversi, ugualmente importanti nel campo del welfare, anche se negli ultimi decenni si è sovrastimato il potere esperto.”

Veniamo alla tematica della scuola. “Secondo don Milani” – lei afferma – “è la care che fa la differenza”. In cosa consiste esattamente? La riscontra nelle scuole italiane?
“La care è la premura, l’interessamento, l’aver a cuore qualcosa o qualcuno. Nelle scuole e nei servizi sociali e sanitari, ma direi in ogni organizzazione umana, la care non può non esistere perché se non esistesse nessuna umanità sarebbe riscontrabile in quei luoghi e nessun senso si sprigionerebbe. Con tutte le difficoltà che queste istituzioni hanno, dobbiamo riconoscere che molte di esse hanno al loro interno se non altro sprazzi di buon funzionamento. Questi sprazzi sono dovuti alle persone di buona volontà che si prendono a cuore le loro attività e le fanno andare bene.”

L’avvento della postmodernità ha causato ripercussioni sul sistema di welfare?
“Non si capisce bene che cosa voglia dire esattamente postmodernità ma si può dire che questa cultura rompe con l’idea, tipicamente moderna, che gli esperti detengano una conoscenza certa e incontrovertibile. In questo senso le ripercussioni forti nel sistema di welfare sono dovute principalmente a quanto detto sopra, e cioè una rivalutazione forte delle capacità e delle competenze delle persone motivate.”

Fabio Folgheraiter è professore di Metodologia del lavoro sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove coordina il corso di Laurea Magistrale in “Scienze del lavoro sociale e delle politiche di welfare”. È autore di diverse pubblicazioni, tra cui “Teoria e metodologia del servizio sociale” (Angeli, 1998), “Tossicodipendenti riflessivi” (Erickson, 2006), “La cura delle reti” (Erickson, 2006), “La logica sociale dell’aiuto: fondamenti per una teoria relazionale del welfare” (Erickson, 2007).