“Via da Brooklyn” (Palomar, 2007) di Lynne Sharon Schwartz “è la storia di un occhio e di come diventò quello che diventò“. Ovvero di come la bambina Audrey, costretta da un occhio difettoso dalla nascita a esperire il mondo appiattito da una percezione che manca di profondità, diventi la donna che ne racconta la storia.
Un romanzo di formazione sui generis, in cui l’evoluzione della protagonista, che vive la sua infanzia a Brooklyn durante la Seconda Guerra Mondiale, si snoda tra due mondi percepiti separatamente: quello nitido ma piatto dell’occhio sano e quello indistinto dell’occhio difettoso, che riesce però a sbirciare al di là delle cose scovandone la vera essenza. Chiudendo l’occhio sano, Audrey può rimuovere il velo che cela la verità, che altro non è che una cortina di omertà sulle passioni, i conflitti e i fermenti di una pseudo-placida vita di periferia.
La Brooklyn da cui Audrey vorrebbe fuggire, dove si percepiscono appena tra tedio e grigiore gli echi lontani della vita che scorre nel resto del mondo, non è altro che la concretizzazione dell’atteggiamento di una generazione di adulti che finge di non sapere e di non avere interesse per ciò che esula dalla mera quotidianità. Finge a fin di bene, potremmo dire, perché questo velo è voluto e creato allo scopo di preservare i più piccoli nel loro stato naturale di spensierata innocenza.
Per questa generazione di adulti quindi, l’occhio difettoso di Audrey è un ribelle e deve essere corretto: bisogna vietargli di girovagare liberamente in cerca di verità, farlo guarire affinché segua il piano prestabilito, la “sistemazione”, la piena accettazione della squallida quotidianità. Ma, paradossalmente, è proprio dall’oculista che dovrebbe porre fine alla ribellione, che Audrey compie il passo decisivo verso la perdita dell’innocenza. Il passo dalla conoscenza libresca all’esperienza reale, dall’antiquato, timorato manuale di educazione sessuale sottratto di nascosto dalla camera dei genitori, alla perdita della verginità che, insieme alla scoperta di una generazione di adulti marcia e viziata, le apre “quasi” le porte alla maturità e a una parziale iniziazione ai misteri della vita sotterranea di Brooklyn.
Lynne Sharon Schwartz, una tra le più fulgide autrici ebraico-americane contemporanee, sa quali corde toccare per raggiungere l’intesa con il lettore, per il quale non è affatto difficile immedesimarsi, frugando tra i propri ricordi, con il personaggio di Audrey, così reale e tuttavia palesemente fittizio. La Schwartz è conscia delle potenzialità del suo “strumento scrittura”, come Audrey lo è del suo occhio: entrambe creano e ri-creano la realtà, mescolando memoria e fantasia. La Brooklyn che qui si dipinge non è in fondo così insolita, sembra piuttosto una creatura della società statunitense che, avendo perso ormai da tempo la sua innocenza, ha dovuto accrescere la sua bravura nel celare, ridimensionare, inventare, far dimenticare. Abilità nella quale, ancora e soprattutto oggi, dà prova di essere maestra.
Lynne Sharon Schwartz è considerata una solida presenza nella narrativa e nella saggistica degli ultimi decenni. Ha vinto nel 1991 il PEN Renato Poggioli Award per la sua traduzione de Il fumo di Birkenau di Liana Millu. Suoi racconti sono comparsi in traduzione italiana in varie riviste e antologie. Il suo ultimo romanzo, centrato sull’11 settembre, è stato tradotto e pubblicato nel 2005 da Fazi Editore col titolo Giochi d’infanzia. Il su sito personale è www.lynnesharonschwartz.com