Arrivati al tredicesimo numero si può dire che Taxi drivers (Jolanda edizioni), rivista, per loro stessa ammissione, “di cinema e di cultura metropolitana” abbia superato il primo step, il primo esame di maturità riuscendo a penetrare nel difficile mondo dei free press ritagliandosi uno spazio niente affatto minimo in aree ben precise della città. Una redazione formata da persone giovani e dinamiche ha “messo al mondo” un prodotto di qualità che “racconta” il cinema nelle sue forme più diversificate.
Oltre alle pellicole inserite nei circuiti tradizionali molta importanza viene data alle produzioni indipendenti sia quelle che in qualche modo sono riuscite a trovare spazio nelle sale sia quelle che hanno trovato ostacoli o che stanno cercando finanziamenti.
In una vecchia intervista Federico Fellini dichiarava di “aver bisogno di una realtà completamente ricostruita”; una realtà che si fa chiave del suo lavoro, l’individuazione della sua estetica, di una propria bussola, di un criterio, di un personale itinerario psicologico. Il cinema come ogni forma d’arte è una creazione e come tale va considerato quando se ne vuole parlare criticamente. In un certo senso bisogna “osare”, provare a mettersi al di sopra del regista, dell’artista, per tentare di offrire non tanto una valutazione quanto una definizione.
Nel primo articolo dell’ultimo numero di Taxi Drivers si cercano di spiegare le motivazioni che hanno portato alla scelta di Fino all’ultimo respiro come film da allegare al magazine. L’incipit è una domanda: che cos’è un capolavoro? L’autore del pezzo, Luca Biscontini, sciorina una definizione che sa di dizionario ma che, a conti fatti, sembra essere abbastanza esaustiva: è un’opera in cui la rappresentazione della realtà è sottoposta ad una torsione tale da provocare un rovesciamento delle prospettive e delle forme usuali, con una immediatezza e un vigore che confondono, e al tempo stesso estasiano, coloro che ne fruiscono.
Sono d’accordo con questa definizione così precisa. Capire cos’è un capolavoro – e il film di Godard, vero e proprio manifesto della Nouvelle Vague, lo è – è importante non solo per creare una sorta di iperuranio cinematografico in cui vivono come anime superiori le immagini, i suoni, i registi, gli attori delle opere che entrano in questa categoria ma, di contro, dare una valutazione a tutto ciò che si trova più in basso.
L’intento della rivista è quello di definire queste creazioni, senza preconcetti di forma e il compito prefissato sembra essere portato a termine. Cinquanta pagine ben fatte sia per quanto riguarda i contenuti sia dal punto di vista grafico. Vincenzo Patanè Garsia, direttore della rivista, ha fatto un ottimo lavoro cercando di dare un taglio “giovanile” ma non “giovanilistico” e scegliendo uno “squadra” molto valida.
Il percorso intrapreso deve continuare perché in un momento come questo, nel quale l’editoria va solamente verso “lidi sicuri”, tentare una strada realmente alternativa, atta a comprendere e criticare alcuni passaggi fondamentali della nostra epoca che passano volutamente o meno tra le scene di un film piuttosto che un altro, può essere una scelta tanto giusta quanto vincente. Nell’era delle immagini c’è bisogno di un appiglio, un punto visibile o invisibile che ne permetta la comprensione.