Giornata romana per lo scrittore romagnolo che il 23 aprile, ha regalato un doppio gustosissimo appuntamento: Nel pomeriggio si è confrontato con i lettori delle diciassette scuole della capitale per la manifestazione “2009. Un anno stregato” organizzata dalla Fondazione Bellonci. La sera ha raccontato di sé e del suo ultimo romanzo nella calda atmosfera della libreria Altroquando accompagnato dall’amico Carlo D’Amicis. LIBRI/Leggi la recensione di “I frutti dimenticati”
Incontrare Cristiano Cavina è come tornare indietro nel tempo, fuggire dalla metropoli e raggiungere il microcosmo della provincia italiana. Se lo guardi attentamente non sembra lo scrittore classico che ci viene presentato dall’immaginario comune: seduto un po’ scomposto, come i ragazzi impacciati che non sanno come muoversi ad un colloquio di lavoro, felpa rossa, le mani che tamburellano sul tavolo cercando di dare un ritmo ai secondi o spostando qualsiasi cosa trovino tra il legno e il polpastrello. Ad ogni domanda prima di rispondere, apre la bocca per accennare un sorriso, timido, sincero quasi come a dire: sono come voi, un ragazzo come tutti gli altri.
Ma Cristiano Cavina non è come tutti gli altri, è una persona che conosce l’arte dello scrivere che non è puro esercizio di forma, ma semplice desiderio di raccontare. Un raccontare che ricerca nel proprio passato, nel sodalizio fedele alla propria famiglia, alla propria terra, a se stesso.Ieri a Roma, dopo aver chiacchierato nel pomeriggio con Antonio Scurati (Il rumore sordo della battaglia, Il bambino che sognava la fine del mondo) confrontandosi entrambi con un esercito di ragazzi provenienti da diciassette scuole capitoline (al Caffè Letterario, sull’Ostiense) si è presentato alla libreria Altroquando di via del Governo Vecchio (quella vicina a Baffetto per intendersi…) dando vita a una piacevole serata, commovente e divertente.
Scesi nei “sotterranei” della nuova libreria, nata da poco come “prolungamento” di quella storica, quella specializzata in volumi di cinema, l’atmosfera si è fatta subito quella di una serata tra amici: boccali di birra alla spina, pochi tavolini, pareti tappezzate di poster di film anni sessanta e settanta (a dir la verità quasi tutti di quell’osé soft che in quegli anni andava per la maggiore). Non c’era troppa gente, ma pioveva e tirava vento come in quelle serate autunnali in cui ti passa la voglia di uscire. Eppure quei pochi tavoli, i ragazzi simpatici della libreria, l’accento pacato di Cristiano, la voglia di ascoltare i racconti di questo ragazzo come l’attesa infantile delle fiabe prima di andare a dormire, hanno creato un qualcosa di bello, “leggero”, poetico.
Cavina, sospinto da Carlo De Amicis, l’amico di tante partite a calcio ma anche lo scrittore e il presentatore di Fahrenheit, ci racconta il suo ultimo, bellissimo libro, “I frutti dimenticati” (Marcos y Marcos, 2008) ma soprattutto, ancora una volta, ci racconta il proprio mondo, la propria infanzia, i personaggi che si sono susseguiti nella propria esistenza “felice”. Tornano ancora la nonna “santa”, il nonno un po’ don Giovanni un po’ combina guai, la madre forte capace di reggere l’urto dell’abbandono. E già, l’assenza di un padre che per l’autore si fa spazio di riflessione ma anche di giocosa immaginazione fino ad immaginarne un’entrata in scena per poi rigettarlo lontano per non contaminare tutto il magma con cui da ragazzo aveva riempito questo vuoto.
Commuove l’ingenuità con cui parla di questo padre invisibile, di questa città proiezione realistica dell’antico mondo di Don Camillo e Peppone, di questo senso di colpa dopo aver fatto un errore che solo nel furore dello scrivere gli porta a chiedere scusa. Sempre di più il ragazzo-scrittore coincide con il ragazzo-protagonista, anche in quest’ultimo romanzo mai così tangente alla realtà e scritto in due settimane, come ammette sorridendo e ammiccando a Roberta, ufficio stampa della casa editrice. Il teorema di Casola Valsenio si chiude con questo quarto capitolo, il più maturo, il più difficile, il più duro. Forse arriverà un romanzo sui tempi liceali, all’Itis, la scuola che non “gli ha insegnato i congiuntivi”, passati tra Faenza e Imola. O forse no. Ora prima della scrittura c’è un bambino, perché l’essere padre non è una questione genetica ma “un qualcosa che si ottiene sul campo”.