“Manhattan Transfer“ di John Dos Passos (Baldini&Castoldi, 2012) non lo leggi, lo vedi e ne odi i rumori di fondo come vedresti e ascolteresti i rumori di fondo di un film che abbia per protagonista New York.
Tti scorre davanti una miriade di quadri isolati, ti fa ressa intorno, fino a confonderti, una folla di personaggi, situazioni, ambienti e dialoghi, tanto che ti sembra di essere in una di quelle pellicole di Spike Lee o di Scorsese, nelle quali il regista non si limita a raccontarti ma ti fa respirare l’aria ammorbante di una metropoli divoratrice di anime.
Siamo però agli inizi del ‘900, il libro, riscoperto recentemente dalla Baldini & Castaldi, è del 1925 ed è di Dos Passos, scrittore appartenente alla cosiddetta “generazione perduta” come i contemporanei, più noti, Hemingway e Fitzgerald. Forse la sua infatuazione prima per il marxismo e poi per la destra più conservatrice hanno nuociuto alla sua fama, eppure Manhattan transfer è un capolavoro: difficile non considerarlo l’apripista per i migliori romanzi della letteratura statunitense contemporanea da Wolfe a DeLillo e altri.
Possiamo in effetti parlare di un’opera ponte fra la letteratura europea di Otto e Novecento e il grande romanzo americano di oggi: la metropoli di Dos Passos ha infatti i connotati degli inferni urbani di Baudelaire, Balzac e Zola, e l’Ulisse di Joyce sopravvive nel flusso di coscienza collettivo con cui lo scrittore registra la vita interiore di un’umanità delirante nell’incubo metropolitano. Del resto sono molteplici gli elementi che vanno nella direzione dello sperimentalismo più estremo caro al romanzo europeo del secolo scorso: l’assenza di un percorso lineare nella presentazione dei personaggi, sorpresi in momenti della loro esistenza distanti cronologicamente fra loro, la frantumazione della trama in un affastellarsi di micro sequenze, appunti apparentemente presi via via che i fenomeni si presentano agli occhi di uno scrittore/ cronista, simile nell’assenza di sistematicità razionale all’umanità allucinata che descrive.
Evidente così che non di anacronistico romanzo realista si tratta: l’ibridismo di registri rende più vivida la rappresentazione veritiera di una realtà esplosiva dilatandone la percezione con i suoni, i colori, le onomatopee martellanti. La città corrompe infatti innanzi tutto i sensi e la quotidianità ne è segnata dal crepitio degli incendi, dal frastuono degli incidenti e dal gemere della sopraelevata: un delirio visivo e sonoro, restituito alla pagine dal poemetto lirico che fa da incipit ai capitoli. La raffinatezza dello stile enfatizza dunque la denuncia: nessuno, né il mago di Wall Street, né il disoccupato ramingo per le vie, né la bellissima attrice, si salva dall’immersione, reale o metaforica, nel fiume brumoso. E fra il ticchettio delle macchine da scrivere e lo sferragliare dei vagoni si perde il lamento della patetica ballerina “ Io vorrei fare soltanto cose belle. Le sento dentro di me: qualcosa…che sbatte le ali come un uccello dalla belle piume in una brutta gabbia di ferro”
John Dos Passos, nato a Chicago nel 1896 e morto a Baltimora nel 1970, è con Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald uno degli scrittori più importanti della «generazione perduta». Ammirato da Edmund Wilson, apprezzato da André Gide, esaltato da Jean-Paul Sartre per Manhattan Transfer e la trilogia U.S.A. (42° Parallelo, 1919, Un mucchio di quattrini)è stato a lungo ingiustamente dimenticato. Di lui, Dalai editore, oltre a questa nuova edizione di Manhattan Transfer, ha pubblicato i romanzi Tempi migliori (2004) e La riscoperta dell’America (2006) e la raccolta dei suoi reportage di guerraServizio speciale (2008).
Autore: John Dos Passos
Titolo: Manhattan Transfer
Traduzione: Alessandra Scalero
Editore: Baldini & Castaldi Dalai
Anno: 2012
Pagine: 391
Prezzo: 18 euro
*articolo di Augusto Leone